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Maratona di Visione | Rassegna Online di Videoarte

IV Edizione

28 settembre 2023 – 15 febbraio 2024

 

Con la direzione artistica di Alberto Ceresoli e Carmela Cosco, con il sostegno del Comune di Bergamo e Bergamo Smart City & Community nell’ambito di Bergamo Brescia Capitale della Cultura 2023, inaugura la IV Edizione di Maratona di Visione (Rassegna Online di Videoarte). Il progetto mira a promuovere la ricerca video contemporanea e con la costruzione di una piattaforma web dedicata, le cinquanta opere video selezionate saranno fruibili gratuitamente durante il periodo settembre 2023 – febbraio 2024. Inoltre durante i mesi di Rassegna, proiezioni e screening video saranno ospitati all’interno di diverse sedi e contenitori per l’Arte Contemporanea che operano attivamente sul territorio nazionale.

 

 

Quarantacinque artisti con background e percorsi di ricerca riconosciuti internazionalmente sono stati chiamati per dare corpo alla piattaforma:

 

Sonia Andresano, Marco Antelmi, Apotropia, Edoardo Aruta, Oreste Baccolini, Théodora Barat, Silvia Bigi, Barbara Brugola, Boris Cassanmagnago, Raffaele Cirianni, Artiom Constantinov, Martino Pinna e Martino Corrias, Collettivo Cuore, Enrico Dedin, Lavinia Ferrone e Giovanni De Gara, Antonio Della Guardia, Elisabetta Di Sopra, Il Pesce d’Oro, Clarissa Falco, Nicola Fornoni, Sasha Vinci e Maria Grazia Galesi, Federico Ghillino, Kamilia Kard, Marta Lodola, Francesca Lolli, Marcantonio Lunardi, Camilla Marinoni, Noemi Mirata, Lorenzo Montinaro, Federica Murittu, Saggion – Paganello, Lorenzo Papanti, Ginevra Petrozzi, Luca Marcelli Pitzalis, Plastikhaare, Davide Quartucci, Francesco Re Li Calzi, Marco Rossi, Domenico Ruccia, Miami Safari, Daniele Sciacca, Luca Staccioli, Giulia Terminio, Noelle Turner e Ella Turner-Bridger,  Zhang Wenzheng.

 

 

Con la collaborazione co-curatoriale di:

 

AA29 art project, C.F. CONTEMPORARY FIRE, Fondazione Adriano Bernareggi, Galleria Ramo, Genealogie del futuro, Hidden garage, Il Pesce d’Oro, Laboratorio 31, Limone space, Midi Motori Digitali, Mostrami, Officina 15, Osservatorio Futura, Palazzo Bronzo, Spazio Insitu, Spazio Materia, studioconcreto, Toast Project Space, VOGA Art Project.

 

 

Web design: Woodoo studio
Grafica: Roberto Ferro

Per un prossimo reale

Antonio Della Guardia
06’46”, 2020

 

Selezionato da studioconcreto

Per un prossimo reale, il lavoro video di Antonio Della Guardia realizzato per exscenario progetto a cura di studioconcreto (www.studioconcreto.net) , apre una riflessione sul corpo e sulle sue pratiche variabili di funzionamento, concentrandosi in maniera duplice sul concetto di vedere. Da una parte, con approccio tutoriale, evidenzia un indirizzo analitico all’interno del quale sono elencati alcuni esercizi di rieducazione visiva riconosciuti come “metodo Bates” (insieme di tecniche teorizzate da William Horatio Bates nei primi anni del Novecento che avrebbero la capacità di curare i difetti della vista); dall’altra, invece, cerca di focalizzare la riflessione su un vedere critico che mira ad una riappropriazione dei sistemi percettivi definiti dall’artista come tecniche utili per evadere da un mondo paralizzato dai flussi economici dell’iperconnessione.

 

 

Gli occhi funzionano in base all’esperienza acquisita dal movimento del corpo nello spazio. Quest’ultimo, ora più che mai, è fortemente condizionato da limitazioni che influenzano negativamente la nostra percezione. Jonathan Crary, a proposito di questi limiti, ipotizza una vera e propria sospensione incalzata da una crisi dell’attenzione e incentivata dalla nuove tecnologie che favoriscono la sedentarietà e ostacolano sempre di più la relazione tra mente e corpo. Siamo in prossimità di un reale che non riusciamo più a codificare, spiega Antonio Della Guardia, invitandoci dunque a compiere un processo evasivo che pone l’attenzione sul sé come atto politico, volto a ribaltare un punto di vista inflazionato al fine di riconquistare un’attenzione perduta. L’insieme degli esercizi – tra i quali l’esplorazione della visione periferica, azione di sospensione della visione centrale, oppure il palming in grado di riportare a una concentrazione perduta – assumono per l’artista la stessa valenza di un manifesto. Nel momento in cui guadagnamo noi stessi mediante l’azione di questi processi, recuperiamo l’immaginazione scioperata e ci affranchiamo del continuo flusso di dati che ogni giorno riceviamo.

 

può esservi coscienza soltanto dove c’è cambiamento
può esservi cambiamento soltanto dove c’è movimento 
l’attenzione è essenzialmente un processo di distinzione 
il centro è immobilizzato
ai margini i bagliori del pensiero 
immaginare per opporsi
vedere per determinare

 

 

Per un prossimo reale si muove lungo un processo narrativo alchemico composto da figure organiche e inorganiche. Una strada costituita da forti assonanze dove le striature del marmo ci rimandano alle venature del bulbo oculare e alle linee della mano. L’organo tattile sta lì a ricordarci che la lettura del mondo non è mai solo appannaggio dell’occhio ma coinvolge fisicamente la relazione con l’esterno anche attraverso la percezione aptica. Gli esercizi che costituiscono le oscillazioni ampie sono rivolte verso l’indice delle estremità dell’arto, che ritorna iconograficamente nel lavoro In loco parentis (2017) di Antonio Della Guardia, ma che in questo caso si fa oggetto osservato e ci invita a recuperare quella attenzione perduta, a guardarci dentro, riabilitando con metodo terapeutico il vedere.

Per un prossimo reale, il lavoro video di Antonio Della Guardia realizzato per exscenario progetto a cura di studioconcreto (www.studioconcreto.net) , apre una riflessione sul corpo e sulle sue pratiche variabili di funzionamento, concentrandosi in maniera duplice sul concetto di vedere. Da una parte, con approccio tutoriale, evidenzia un indirizzo analitico all’interno del quale sono elencati alcuni esercizi di rieducazione visiva riconosciuti come “metodo Bates” (insieme di tecniche teorizzate da William Horatio Bates nei primi anni del Novecento che avrebbero la capacità di curare i difetti della vista); dall’altra, invece, cerca di focalizzare la riflessione su un vedere critico che mira ad una riappropriazione dei sistemi percettivi definiti dall’artista come tecniche utili per evadere da un mondo paralizzato dai flussi economici dell’iperconnessione.

 

 

Gli occhi funzionano in base all’esperienza acquisita dal movimento del corpo nello spazio. Quest’ultimo, ora più che mai, è fortemente condizionato da limitazioni che influenzano negativamente la nostra percezione. Jonathan Crary, a proposito di questi limiti, ipotizza una vera e propria sospensione incalzata da una crisi dell’attenzione e incentivata dalla nuove tecnologie che favoriscono la sedentarietà e ostacolano sempre di più la relazione tra mente e corpo. Siamo in prossimità di un reale che non riusciamo più a codificare, spiega Antonio Della Guardia, invitandoci dunque a compiere un processo evasivo che pone l’attenzione sul sé come atto politico, volto a ribaltare un punto di vista inflazionato al fine di riconquistare un’attenzione perduta. L’insieme degli esercizi – tra i quali l’esplorazione della visione periferica, azione di sospensione della visione centrale, oppure il palming in grado di riportare a una concentrazione perduta – assumono per l’artista la stessa valenza di un manifesto. Nel momento in cui guadagnamo noi stessi mediante l’azione di questi processi, recuperiamo l’immaginazione scioperata e ci affranchiamo del continuo flusso di dati che ogni giorno riceviamo.

 

 

può esservi coscienza soltanto dove c’è cambiamento
può esservi cambiamento soltanto dove c’è movimento 
l’attenzione è essenzialmente un processo di distinzione 
il centro è immobilizzato
ai margini i bagliori del pensiero 
immaginare per opporsi
vedere per determinare

 

 

Per un prossimo reale si muove lungo un processo narrativo alchemico composto da figure organiche e inorganiche. Una strada costituita da forti assonanze dove le striature del marmo ci rimandano alle venature del bulbo oculare e alle linee della mano. L’organo tattile sta lì a ricordarci che la lettura del mondo non è mai solo appannaggio dell’occhio ma coinvolge fisicamente la relazione con l’esterno anche attraverso la percezione aptica. Gli esercizi che costituiscono le oscillazioni ampie sono rivolte verso l’indice delle estremità dell’arto, che ritorna iconograficamente nel lavoro In loco parentis (2017) di Antonio Della Guardia, ma che in questo caso si fa oggetto osservato e ci invita a recuperare quella attenzione perduta, a guardarci dentro, riabilitando con metodo terapeutico il vedere.

Beating On Hardest Difficulty

Marco Antelmi
03’40”, 2023

 

Selezionato da VOGA Art Project

⋆↭✦☆∘° ̊⊹ ̇*.⚭✴ᖗ✧˖⚛▴Beating on hardest difficulty▴⚛˖✧ᖘ✴⚭.* ̇⊹ ̊°∘☆✦↭⋆ è un saggio visivo circolare che parla di come gli sviluppi tecnologici alterano il nostro modo di ricordare, desiderare e confrontarci con la virtualità. Il video mostra lo strato liminale tra lo spazio fisico e quello virtuale attraverso la mappatura di una crisi di identità estatica. Il nostro protagonista si ritrova in questo interregno al culmine di una asfissia autoerotica, una pratica masochista che dona piacere a chi si soffoca. Quando l’ossigeno viene a mancare, entriamo in prima persona in uno spazio onirico dove suoni, immagini e sottotitoli ci parlano in maniera asimmetrica del LiDar, nuovo sensing medium di rilevamento e di percezione a infrarossi. La luce è qui intesa come pulsione di morte libidica.

La tecnologia LiDar consente la creazione di repliche digitali di ambienti e oggetti reali, comprese informazioni su distanze, biomassa e composizione chimica. Il LiDar è utilizzato in campi come l’aerospaziale e la chimica, le telecomunicazioni e l’archeologia. Le sue applicazioni militari sono ancora segrete, ma la sua nuova frontiera riguarda il rilevamento dei corpi. Il nostro protagonista si ritrova a guardare attraverso gli occhi della tecnologia, che diventa un modo per sentire il mondo in maniera diretta, una fonte di piacere masochistico e incomprensibile.

⋆↭✦☆∘° ̊⊹ ̇*.⚭✴ᖗ✧˖⚛▴Beating on hardest difficulty▴⚛˖✧ᖘ✴⚭.* ̇⊹ ̊°∘☆✦↭⋆ collega documentario, gameplay, found footage e LiDar visualization ai remix di musica nightcore e ai video showcase di prodotti kawaii per mostrare quello stato di godimento edonistico e parziale tipico dell’estasi, in cui anche le visioni più incomprensibili possono provocare piacere. Al contempo, il video apre percorsi sulle tecnologie emergenti di sorveglianza e sul rapporto tra sesso e identità nel post-digitale.

⋆↭✦☆∘° ̊⊹ ̇*.⚭✴ᖗ✧˖⚛▴Beating on hardest difficulty▴⚛˖✧ᖘ✴⚭.* ̇⊹ ̊°∘☆✦↭⋆ è un saggio visivo circolare che parla di come gli sviluppi tecnologici alterano il nostro modo di ricordare, desiderare e confrontarci con la virtualità. Il video mostra lo strato liminale tra lo spazio fisico e quello virtuale attraverso la mappatura di una crisi di identità estatica. Il nostro protagonista si ritrova in questo interregno al culmine di una asfissia autoerotica, una pratica masochista che dona piacere a chi si soffoca. Quando l’ossigeno viene a mancare, entriamo in prima persona in uno spazio onirico dove suoni, immagini e sottotitoli ci parlano in maniera asimmetrica del LiDar, nuovo sensing medium di rilevamento e di percezione a infrarossi. La luce è qui intesa come pulsione di morte libidica.

La tecnologia LiDar consente la creazione di repliche digitali di ambienti e oggetti reali, comprese informazioni su distanze, biomassa e composizione chimica. Il LiDar è utilizzato in campi come l’aerospaziale e la chimica, le telecomunicazioni e l’archeologia. Le sue applicazioni militari sono ancora segrete, ma la sua nuova frontiera riguarda il rilevamento dei corpi. Il nostro protagonista si ritrova a guardare attraverso gli occhi della tecnologia, che diventa un modo per sentire il mondo in maniera diretta, una fonte di piacere masochistico e incomprensibile.

⋆↭✦☆∘° ̊⊹ ̇*.⚭✴ᖗ✧˖⚛▴Beating on hardest difficulty▴⚛˖✧ᖘ✴⚭.* ̇⊹ ̊°∘☆✦↭⋆ collega documentario, gameplay, found footage e LiDar visualization ai remix di musica nightcore e ai video showcase di prodotti kawaii per mostrare quello stato di godimento edonistico e parziale tipico dell’estasi, in cui anche le visioni più incomprensibili possono provocare piacere. Al contempo, il video apre percorsi sulle tecnologie emergenti di sorveglianza e sul rapporto tra sesso e identità nel post-digitale.

Eadweard

Martino Pinna, Martino Corrias
03’11”, 2023

 

Selezionato da Mostrami

“Noi si nasce ciechi e dopo venti giorni, un mese, i neonati cominciano non a vederci, a stravederci, a scambiar lucciole per lanterne, aprono gli occhietti. Invece il suono noi lo recepiamo sempre meglio al secondo terzo mese nelle acque, nel liquido amniotico, nelle acque materne noi sentiamo…” Da questa suggestione di Carmelo Bene prende forma Eadweard. Il titolo dell’opera video riconduce alla figura di Eadweard Muybridge, pioniere della fotografia e autore delle prime immagini in movimento nel 1878. È con lui che l’essere umano ha iniziato a “stravederci”, per citare le parole di Bene, e a proiettare se stesso, a specchiarsi, a guardarsi. La vista ha preso il sopravvento su tutto.

“Noi si nasce ciechi e dopo venti giorni, un mese, i neonati cominciano non a vederci, a stravederci, a scambiar lucciole per lanterne, aprono gli occhietti. Invece il suono noi lo recepiamo sempre meglio al secondo terzo mese nelle acque, nel liquido amniotico, nelle acque materne noi sentiamo…” Da questa suggestione di Carmelo Bene prende forma Eadweard. Il titolo dell’opera video riconduce alla figura di Eadweard Muybridge, pioniere della fotografia e autore delle prime immagini in movimento nel 1878. È con lui che l’essere umano ha iniziato a “stravederci”, per citare le parole di Bene, e a proiettare se stesso, a specchiarsi, a guardarsi. La vista ha preso il sopravvento su tutto.

Or anything at all except the dark pavement

Théodora Barat
05’00”, 2011

 

Selezionato da Limone space

Or anything at all except the dark pavement è un piano sequenza. Inizia con l’avanzamento, come una sentinella, attraverso la città, illuminata solo da poche sgargianti luci al neon. Poi segue l’oscurità, rivelando un paesaggio luminoso, un altro skyline. Ciò che appare nel video sono elementi messi in scena che offrono altri eventi: una visione fantasmatica di un paesaggio lungo il ciglio della strada.

Or anything at all except the dark pavement è un piano sequenza. Inizia con l’avanzamento, come una sentinella, attraverso la città, illuminata solo da poche sgargianti luci al neon. Poi segue l’oscurità, rivelando un paesaggio luminoso, un altro skyline. Ciò che appare nel video sono elementi messi in scena che offrono altri eventi: una visione fantasmatica di un paesaggio lungo il ciglio della strada.

What remains before another night begins

Boris Cassanmagnago
02’04”, 2023

È notte fonda e una figura solitaria corre senza tregua in un eterno loop audiovisivo.

Al termine di ogni sua azione, poco prima che si trovi costretto a ripetere il suo contrappasso, restano alcuni momenti di tregua nei quali interrogarsi sul senso di ciò che sta accadendo: perché sta compiendo questo sforzo? La strada che ha percorso lo ha portato alla destinazione che si aspettava? Cosa resta, di lui e di tutto ciò che ha raggiunto, prima che cominci un’altra notte?

È notte fonda e una figura solitaria corre senza tregua in un eterno loop audiovisivo.

Al termine di ogni sua azione, poco prima che si trovi costretto a ripetere il suo contrappasso, restano alcuni momenti di tregua nei quali interrogarsi sul senso di ciò che sta accadendo: perché sta compiendo questo sforzo? La strada che ha percorso lo ha portato alla destinazione che si aspettava? Cosa resta, di lui e di tutto ciò che ha raggiunto, prima che cominci un’altra notte?

Mira que toro

Boris Cassanmagnago
03’12”, 2021

Un pugile fiero e sfuggente affronta il suo avversario sotto un cielo azzurro e immobile. L’ambientazione indefinita – unita a una sottile manipolazione audiovisiva – consentono una fruizione non convenzionale del combattimento, che diventa un’occasione per ascoltare e immaginare l’azione.

Un pugile fiero e sfuggente affronta il suo avversario sotto un cielo azzurro e immobile. L’ambientazione indefinita – unita a una sottile manipolazione audiovisiva – consentono una fruizione non convenzionale del combattimento, che diventa un’occasione per ascoltare e immaginare l’azione.

Attempt to fly

Daniele Sciacca
17’45”, 2022

Credits: Marco Mazzone, Claudia Capone, Marcio, Rosario Conte

 

Selezionato da Spazio Insitu

Il video si apre su una strada deserta e buia. Potremmo essere ovunque e da nessuna parte, non importa. L’inquadratura è stretta sull’immagine di un motociclista del quale lentamente ci viene mostrata l’intera figura, come girando intorno a una scultura a tuttotondo. Scopriamo quindi le sembianze di quello che è a tutti gli effetti una sorta di cavaliere contemporaneo; la sua tuta è la sua armatura, il casco è l’elmo. Entrambi contribuiscono con la loro estetica alla costruzione di un’immagine e al nascondimento dell’identità. Al pari di un atleta classico viene immortalato nel momento che precede l’azione e noi siamo partecipi di qualcosa che sta per succedere e che viene evocato in potenza. Poi accade: parte e impenna e noi seguiamo con lo sguardo questo eroe dei nostri giorni che gioca con la gravità. In questo spazio-tempo iconico e assurdo si condensano storie che rimandano al mito nella sua accezione alta così come quelle che si danno per vere e assumono uno status di credibilità basato sul passaparola quanto sul dogma. Tutto ha infatti inizio con una storia che si fa risalire a quelle ascoltate nella preadolescenza/adolescenza: una multa per tentativo di decollo che minaccia idealmente chiunque con un veicolo non autorizzato si vada a cimentare in un’impennata. Le implicazioni teoriche di questo lavoro riguardano un’idea ampia di mitologia che affonda le sue radici nella necessità di credere a storie incredibili, nella potenza della reliquia (quest’ultima evocata nella forma della multa e quindi del documento, attestazione certa di un fatto), così come una certa ingenuità tipica della preadolescenza, quando credere in qualcosa può essere importantissimo come dissacrarlo. La storia di partenza, di cui non interessa stabilire la veridicità o meno, resta come un’immagine utopica, qualcosa in cui, anche solo per un attimo, vale la pena credere.

Il video si apre su una strada deserta e buia. Potremmo essere ovunque e da nessuna parte, non importa. L’inquadratura è stretta sull’immagine di un motociclista del quale lentamente ci viene mostrata l’intera figura, come girando intorno a una scultura a tuttotondo. Scopriamo quindi le sembianze di quello che è a tutti gli effetti una sorta di cavaliere contemporaneo; la sua tuta è la sua armatura, il casco è l’elmo. Entrambi contribuiscono con la loro estetica alla costruzione di un’immagine e al nascondimento dell’identità. Al pari di un atleta classico viene immortalato nel momento che precede l’azione e noi siamo partecipi di qualcosa che sta per succedere e che viene evocato in potenza. Poi accade: parte e impenna e noi seguiamo con lo sguardo questo eroe dei nostri giorni che gioca con la gravità. In questo spazio-tempo iconico e assurdo si condensano storie che rimandano al mito nella sua accezione alta così come quelle che si danno per vere e assumono uno status di credibilità basato sul passaparola quanto sul dogma. Tutto ha infatti inizio con una storia che si fa risalire a quelle ascoltate nella preadolescenza/adolescenza: una multa per tentativo di decollo che minaccia idealmente chiunque con un veicolo non autorizzato si vada a cimentare in un’impennata. Le implicazioni teoriche di questo lavoro riguardano un’idea ampia di mitologia che affonda le sue radici nella necessità di credere a storie incredibili, nella potenza della reliquia (quest’ultima evocata nella forma della multa e quindi del documento, attestazione certa di un fatto), così come una certa ingenuità tipica della preadolescenza, quando credere in qualcosa può essere importantissimo come dissacrarlo. La storia di partenza, di cui non interessa stabilire la veridicità o meno, resta come un’immagine utopica, qualcosa in cui, anche solo per un attimo, vale la pena credere.

 

La testa del gigante

Zhang Wenzheng
19’24’’, 2022

 

Selezionato da Toast  Project Space

 

Journey to the centre of the earth: the crystal forest’

Noelle Turner e Ella Turner-Bridger
02’00”, 2022

 

Selezionato da C.F. CONTEMPORARY FIRE

Journey to the centre of the earth: the crystal forest prende ispirazione dalla scoperta scientifica compiuta nel 2004 dal Professore Kei Hirose, secondo cui il nucleo della Terra è costituito da ferro – nichel cristallizzato. Questo film è un adattamento di un breve racconto surrealista di fantasia scritto da Noelle Turner, in collaborazione con l’artista Ella Turner-Bridger: il narratore cade accidentalmente in un tubo che la porta al centro della terra, scoprendo una foresta di cristallo. Mentre il narratore cammina attraverso la foresta, trova un lago composto da petrolio greggio e si fonde con esso in modo che diventino un unico organismo. Usando la finzione speculativa come spazio psicologico per elaborare il trauma sia umano che geologico attraverso la fusione dei due, il progetto esplora la possibilità di guarigione, sepolta negli strati di pelle e roccia.

Journey to the centre of the earth: the crystal forest prende ispirazione dalla scoperta scientifica compiuta nel 2004 dal Professore Kei Hirose, secondo cui il nucleo della Terra è costituito da ferro – nichel cristallizzato. Questo film è un adattamento di un breve racconto surrealista di fantasia scritto da Noelle Turner, in collaborazione con l’artista Ella Turner-Bridger: il narratore cade accidentalmente in un tubo che la porta al centro della terra, scoprendo una foresta di cristallo. Mentre il narratore cammina attraverso la foresta, trova un lago composto da petrolio greggio e si fonde con esso in modo che diventino un unico organismo. Usando la finzione speculativa come spazio psicologico per elaborare il trauma sia umano che geologico attraverso la fusione dei due, il progetto esplora la possibilità di guarigione, sepolta negli strati di pelle e roccia.

Eggo

Saggion – Paganello
04’00”, 2020

Un microcosmo che racchiude un macrocosmo. L’uovo trova la sua rappresentazione grafica nello zero, in quanto fondo primordiale di tutti i numeri. Rappresenta un nulla latente che produce qualcosa di attivo e di vivente a seguito di un intervento divino ordinatore del caos, così che la figura dell’unità inscritta nello zero era un tempo il simbolo della divintà, dell’universo e dell’uomo. In quanto simbolo dell’origine primordiale del mondo, l’uovo era considerato l’archetipo in grado di riportare ogni elemento alla sua purezza originaria, risanando la corruzione della materia. Il nucleo primordiale preesistente, oscuro e inconoscibile, l’uovo cosmico, è immagine del Big Bang da cui si è poi sviluppato l’universo. Con la sua rottura. Da cui il vano e disperato tentativo di rimettere a posto i pezzi, il doppio, la coppia nell’unità. Matrice della vita e dell’errore quotidiano e universale. Così che la virtù rituale dell’uovo non si spiega con una valorizzazione empirico razionalistica dell’uovo come germe, ma si giustifica col simbolo che l’uovo incarna: non tanto come nascita ma come ri-nascita, ripetuta secondo il modello cosmogonico. Un macrocosmo che racchiude il microcosmo.

Un microcosmo che racchiude un macrocosmo. L’uovo trova la sua rappresentazione grafica nello zero, in quanto fondo primordiale di tutti i numeri. Rappresenta un nulla latente che produce qualcosa di attivo e di vivente a seguito di un intervento divino ordinatore del caos, così che la figura dell’unità inscritta nello zero era un tempo il simbolo della divintà, dell’universo e dell’uomo. In quanto simbolo dell’origine primordiale del mondo, l’uovo era considerato l’archetipo in grado di riportare ogni elemento alla sua purezza originaria, risanando la corruzione della materia. Il nucleo primordiale preesistente, oscuro e inconoscibile, l’uovo cosmico, è immagine del Big Bang da cui si è poi sviluppato l’universo. Con la sua rottura. Da cui il vano e disperato tentativo di rimettere a posto i pezzi, il doppio, la coppia nell’unità. Matrice della vita e dell’errore quotidiano e universale. Così che la virtù rituale dell’uovo non si spiega con una valorizzazione empirico razionalistica dell’uovo come germe, ma si giustifica col simbolo che l’uovo incarna: non tanto come nascita ma come ri-nascita, ripetuta secondo il modello cosmogonico. Un macrocosmo che racchiude il microcosmo.

From dust you came (and to dust you shall return)

Silvia Bigi
02’55’’, 2019

From dust you came (and to dust you shall return) nasce dal tentativo di ricavare un nuovo pigmento grattando la superficie di una fotografia. Nel suo manifesto ‘The first man was an artist’, Barnet Newman afferma che le prime rappresentazioni umane furono primariamente un grido artistico. I primi pigmenti estratti dall’uomo erano in effetti terre, usate nelle pitture rupestri, come dimostrano le grotte di Lascaux. Con questa azione l’autrice cerca di chiudere un cerchio, riconnettendo la sua pratica a quel grido originario: cominciammo dal pigmento naturale a rappresentare il mondo. Il nuovo pigmento porta con sé questa natura atavica e contemporaneamente tutti i detriti della nostra era, che ne rappresentano una qualità intrinseca. La polverizzazione dell’archivio fotografico famigliare trasforma la memoria privata di Bigi in memoria collettiva e invita a riflettere sul carattere effimero e transitorio delle nostre esistenze: Il nuovo pigmento può essere utilizzato per produrre nuove forme di rappresentazione, in un eterno ciclo.

From dust you came (and to dust you shall return) nasce dal tentativo di ricavare un nuovo pigmento grattando la superficie di una fotografia. Nel suo manifesto ‘The first man was an artist’, Barnet Newman afferma che le prime rappresentazioni umane furono primariamente un grido artistico. I primi pigmenti estratti dall’uomo erano in effetti terre, usate nelle pitture rupestri, come dimostrano le grotte di Lascaux. Con questa azione l’autrice cerca di chiudere un cerchio, riconnettendo la sua pratica a quel grido originario: cominciammo dal pigmento naturale a rappresentare il mondo. Il nuovo pigmento porta con sé questa natura atavica e contemporaneamente tutti i detriti della nostra era, che ne rappresentano una qualità intrinseca. La polverizzazione dell’archivio fotografico famigliare trasforma la memoria privata di Bigi in memoria collettiva e invita a riflettere sul carattere effimero e transitorio delle nostre esistenze: Il nuovo pigmento può essere utilizzato per produrre nuove forme di rappresentazione, in un eterno ciclo.

Expanded_memory

Lorenzo Papanti
05’55”, 2022

Le architetture rappresentano la memoria solida dell’uomo: le loro forme monumentali esprimono la cultura, la sensibilità e la tecnica della società che le ha costruite. Racchiudono spazi spirituali e funzionali e ci mostrano attraverso il tempo la loro facciata muta. Expanded_memory è realizzato utilizzando un algoritmo che elabora le immagini di architetture in un flusso continuo, come la memoria, un processo ininterrotto che si rinnova attraversando le società e gli uomini. Frammenti di architetture sono espansi digitalmente nel tentativo automatico di completarne la costruzione: il risultato è il dissolvimento dei volumi in una nuova configurazione astratta, smaterializzata in una forma continua e senza limiti. Spazio e tempo si confondono come in un ricordo sbiadito, il ricordo dell’umanità intera.

Le architetture rappresentano la memoria solida dell’uomo: le loro forme monumentali esprimono la cultura, la sensibilità e la tecnica della società che le ha costruite. Racchiudono spazi spirituali e funzionali e ci mostrano attraverso il tempo la loro facciata muta. Expanded_memory è realizzato utilizzando un algoritmo che elabora le immagini di architetture in un flusso continuo, come la memoria, un processo ininterrotto che si rinnova attraversando le società e gli uomini. Frammenti di architetture sono espansi digitalmente nel tentativo automatico di completarne la costruzione: il risultato è il dissolvimento dei volumi in una nuova configurazione astratta, smaterializzata in una forma continua e senza limiti. Spazio e tempo si confondono come in un ricordo sbiadito, il ricordo dell’umanità intera.

Se mi fermo forse sono io

Collettivo Cuore
05’49”, 2022

 

Selezionato da Palazzo Bronzo

Se mi fermo forse sono io è una conversazione tra due elementi: il volto e il fuoco. Il volto comunica la volontà di spiccare tra mille altri, il fuoco gli concede la parola attivando un flusso di voci interiori. L’opera è pensata come un’installazione audiovisiva strutturata su due grandi schermi affiancati in posizione verticale. Il dialogo che si crea è una continua indagine sull’essere, adeguati o inadeguati, attivi o passivi; è il dolore un male? Il materiale analizzato e rielaborato proviene dai filmati amatoriali della famiglia Guerra, risalenti all’inizio degli anni ‘80 fino ai primi anni ‘90, quindi in supporto VHS. Si tratta di riprese di memorie ed eventi conviviali, come la nascita dei figli, la prima comunione, le cene in famiglia. Partendo da questi video tape che rappresentano apparentemente momenti “felici”, la nostra attenzione è caduta su tutte quelle persone non consapevoli di comparire in camera. Volti spesso assorti nei loro pensieri, tradotti in azioni spontanee, non controllate che sono difficili da simulare se si sa di essere ripresi. Parliamo di personaggi secondari che restano un po’ nascosti, chi sta dietro la camera non ha come primo intento captare ed immortalare questi volti. Infatti, non sono il soggetto dei video originali, ma appartengono al contorno, a tutte quelle cose che fuggono inosservate. Il soggetto si presenta come non-protagonista, nel ruolo di comparsa. Il suo stato resta un vuoto interpretabile: è comunque un atto performativo. Ed è proprio questa non presenza sostanziale il soggetto del nostro lavoro. Abbiamo individuato in questi volti e nelle espressioni una dimensione: uno stato di non ruolo, di non luogo a cui abbiamo restituito uno spazio e un tempo, un valore. I volti dall’ultimo strato della pellicola vengono fatti emergere in primo piano, rendendoli così dei protagonisti. Il testo che accompagna il video è un collage di estratti di diari personali che affrontano i temi dell’inadeguatezza, della non definizione del sé. L’intento è quello di dare voce a stati indefiniti, inespressi e talvolta incompresi.

Se mi fermo forse sono io è una conversazione tra due elementi: il volto e il fuoco. Il volto comunica la volontà di spiccare tra mille altri, il fuoco gli concede la parola attivando un flusso di voci interiori. L’opera è pensata come un’installazione audiovisiva strutturata su due grandi schermi affiancati in posizione verticale. Il dialogo che si crea è una continua indagine sull’essere, adeguati o inadeguati, attivi o passivi; è il dolore un male? Il materiale analizzato e rielaborato proviene dai filmati amatoriali della famiglia Guerra, risalenti all’inizio degli anni ‘80 fino ai primi anni ‘90, quindi in supporto VHS. Si tratta di riprese di memorie ed eventi conviviali, come la nascita dei figli, la prima comunione, le cene in famiglia. Partendo da questi video tape che rappresentano apparentemente momenti “felici”, la nostra attenzione è caduta su tutte quelle persone non consapevoli di comparire in camera. Volti spesso assorti nei loro pensieri, tradotti in azioni spontanee, non controllate che sono difficili da simulare se si sa di essere ripresi. Parliamo di personaggi secondari che restano un po’ nascosti, chi sta dietro la camera non ha come primo intento captare ed immortalare questi volti. Infatti, non sono il soggetto dei video originali, ma appartengono al contorno, a tutte quelle cose che fuggono inosservate. Il soggetto si presenta come non-protagonista, nel ruolo di comparsa. Il suo stato resta un vuoto interpretabile: è comunque un atto performativo. Ed è proprio questa non presenza sostanziale il soggetto del nostro lavoro. Abbiamo individuato in questi volti e nelle espressioni una dimensione: uno stato di non ruolo, di non luogo a cui abbiamo restituito uno spazio e un tempo, un valore. I volti dall’ultimo strato della pellicola vengono fatti emergere in primo piano, rendendoli così dei protagonisti. Il testo che accompagna il video è un collage di estratti di diari personali che affrontano i temi dell’inadeguatezza, della non definizione del sé. L’intento è quello di dare voce a stati indefiniti, inespressi e talvolta incompresi.

Rimanere in vita

Noemi Mirata
04’ 10”,2022

La presenza forte di una figura anziana scandisce il tempo del video, un tempo che non potrà tornare, una memoria che rimane indelebile e che dà la possibilità allo spettatore di riflettere su chi siamo e sull’importanza degli ultimi momenti della vita che sembrano accarezzare la Morte. All’interno del lavoro si intervallano due tensioni contrastanti che creano una dinamicità costante nell’osservatore. Ci si può fermare osservando una natura idilliaca e quieta e contorcersi nell’urlo dell’artista che tenta di canalizzare ogni nuda emozione. Il corpo prova quindi a riconoscersi, accarezzandosi, percependosi nella sua vulnerabilità e finitezza.

La presenza forte di una figura anziana scandisce il tempo del video, un tempo che non potrà tornare, una memoria che rimane indelebile e che dà la possibilità allo spettatore di riflettere su chi siamo e sull’importanza degli ultimi momenti della vita che sembrano accarezzare la Morte. All’interno del lavoro si intervallano due tensioni contrastanti che creano una dinamicità costante nell’osservatore. Ci si può fermare osservando una natura idilliaca e quieta e contorcersi nell’urlo dell’artista che tenta di canalizzare ogni nuda emozione. Il corpo prova quindi a riconoscersi, accarezzandosi, percependosi nella sua vulnerabilità e finitezza.

The beginning

Nicola Fornoni
03’31”, 2019

Quanto può pesare un cumulo di piume bianche? Quanto sforzo necessita per essere spostato da un uomo, solo con la forza di svariati soffi? Una pila di piume bianche, simbolicamente leggere, vengono percepite come un peso immenso. The beginning è una performance durational che compara la forza dell’uomo e la resistenza fisica con l’inutilità della macchina (ventilatori). Un’azione attenta a materiali che sfidano leggi gravitazionali. Continuo a soffiare, lentamente, su 3,5 kg di piume per un’ora spostandomi a carponi spargendole nello spazio circostante.

Quanto può pesare un cumulo di piume bianche? Quanto sforzo necessita per essere spostato da un uomo, solo con la forza di svariati soffi? Una pila di piume bianche, simbolicamente leggere, vengono percepite come un peso immenso. The beginning è una performance durational che compara la forza dell’uomo e la resistenza fisica con l’inutilità della macchina (ventilatori). Un’azione attenta a materiali che sfidano leggi gravitazionali. Continuo a soffiare, lentamente, su 3,5 kg di piume per un’ora spostandomi a carponi spargendole nello spazio circostante.

Inroads

Camilla Marinoni
03’22’’, 2021-2022

 

Selezionato da Galleria Ramo

Il corpo come confine, come protezione ma anche come limite. Il Corpo come paesaggio, come possibilità di attraversamento del sé. Il Corpo come contenitore, sigillato, squarciato, fragile. Moti di onde che travolgono, stravolgono, mescolano. Dalla calma al caos, dall’esterno all’interno. Il Corpo, cassa di risonanza, esso non può tacere. Il Corpo, memoria di ciò che accade.

Il corpo come confine, come protezione ma anche come limite. Il Corpo come paesaggio, come possibilità di attraversamento del sé. Il Corpo come contenitore, sigillato, squarciato, fragile. Moti di onde che travolgono, stravolgono, mescolano. Dalla calma al caos, dall’esterno all’interno. Il Corpo, cassa di risonanza, esso non può tacere. Il Corpo, memoria di ciò che accade.

Atto di dolore

Elisabetta Di Sopra
03’24”, 2022

Atto di dolore è un gesto che sulle prime potrebbe rievocare alcune immagini sacre della nostra cultura cristiana ma in realtà vuole essere un atto liberatorio, un desiderio di sentire la vita che scorre attraverso il dolore. Un gesto ripetuto con ritmo sempre più incalzante che sospende il respiro, quasi a voler tentare di aprire il petto a colpi di pietra, sino a far sprigionare quel flusso di energia, quella passione che accende il fare artistico.

Atto di dolore è un gesto che sulle prime potrebbe rievocare alcune immagini sacre della nostra cultura cristiana ma in realtà vuole essere un atto liberatorio, un desiderio di sentire la vita che scorre attraverso il dolore. Un gesto ripetuto con ritmo sempre più incalzante che sospende il respiro, quasi a voler tentare di aprire il petto a colpi di pietra, sino a far sprigionare quel flusso di energia, quella passione che accende il fare artistico.

Pietas

Marcantonio Lunardi
03’55”, 2023

Attraversata da cortocircuiti economici, sociali e politici, la nostra società è costretta a vivere una realtà aberrata in cui i simboli del potere vengono stravolti e gli status alterati.  Le maschere ci rappresentano nella loro assoluta deformità: incapaci di nutrirci fingiamo un pasto simbolico completamente avvolti da un fuoco che divora la natura.  In realtà, è un fuoco che nasce dalla nostra stessa incapacità di preservare il nostro futuro e il nostro passato. E per questo rimaniamo bloccati in un limbo senza storia.  Forse la ricerca della redenzione finisce e comincia in quella pietas umanissima, viva, pulsante che conclude l’opera.  Dobbiamo trovare un riscatto alla vita stessa, per far sì che ci sia ancora una possibilità in questo Inferno quotidiano che ogni giorno diventa sempre più nitido nella sua forma e nei suoi confini.

Attraversata da cortocircuiti economici, sociali e politici, la nostra società è costretta a vivere una realtà aberrata in cui i simboli del potere vengono stravolti e gli status alterati.  Le maschere ci rappresentano nella loro assoluta deformità: incapaci di nutrirci fingiamo un pasto simbolico completamente avvolti da un fuoco che divora la natura.  In realtà, è un fuoco che nasce dalla nostra stessa incapacità di preservare il nostro futuro e il nostro passato. E per questo rimaniamo bloccati in un limbo senza storia.  Forse la ricerca della redenzione finisce e comincia in quella pietas umanissima, viva, pulsante che conclude l’opera.  Dobbiamo trovare un riscatto alla vita stessa, per far sì che ci sia ancora una possibilità in questo Inferno quotidiano che ogni giorno diventa sempre più nitido nella sua forma e nei suoi confini.

Dissolvenze

Marta Lodola
18’00”, 2020/2021

Riprese video Alfonso Moral.
Progetto “Memorie periferiche”, residenza d’artista organizzata da IoDeposito, con il sostegno di Regione Friuli Venezia Giulia, Current, Associazione Amideria Chiozza di Ruda, Comune di Ruda, Ccm.

Dissolvenze è un progetto di video performance di ricerca, dedicato al sito archeologico industriale dell’Amideria Chiozza (Ruda, Udine IT), attivo dal 1865 al 1986. Il presente video rappresenta la prima fase di un progetto della decorrenza di due anni, concluso nel 2022. La seconda fase del progetto ha riunito la popolazione locale all’interno degli spazi amideria dove, con una performance collettiva, Lodola ha guidato la comunità ad esperire e ad immaginare un nuovo futuro per questo sito di acheologia industriale. La memoria della storia dell’amideria è evocata metaforicamente attraverso le voci degli ex operai e dei loro familiari, in sovrapposizione a esperienze performative che mettono in relazione un corpo umano contemporaneo con i materiali che venivano utilizzati nella produzione. Durante la Prima Guerra Mondiale l’Amideria è stata utilizzata come stazione di soccorso. Questo luogo storico fu un ambiente di lavoro sicuro per le donne e aiutò la società locale a emanciparsi dalla mera società agricola. Trasformò completamente il territorio rurale in uno più progressista, creando nuove ferrovie e aumentando il tasso di alfabetizzazione nella regione. Le incredibili esperienze interconnesse all’interno di questo luogo sono ancora esistenti in relazione all’antica ricerca scientifica che ha permesso all’Amideria di diventare uno dei più importanti e conosciuti produttori di amido naturale in tutto il mondo. La scelta di mantenere il processo tradizionale è stata la ragione della sua chiusura. Nonostante l’amido estratto fosse di altissima qualità, i lunghi tempi necessari per l’intero processo non potevano essere competitivi rispetto ai nuovi processi veloci e chimici introdotti sul mercato. È per questo che oggi si celebra la memoria di Amideria, per ricordare come siano necessarie scelte etiche ed ecologiche al giorno d’oggi, dove il capitalismo distrugge tutti i metodi naturali di trasformazione delle materie prime.

Dissolvenze è un progetto di video performance di ricerca, dedicato al sito archeologico industriale dell’Amideria Chiozza (Ruda, Udine IT), attivo dal 1865 al 1986. Il presente video rappresenta la prima fase di un progetto della decorrenza di due anni, concluso nel 2022. La seconda fase del progetto ha riunito la popolazione locale all’interno degli spazi amideria dove, con una performance collettiva, Lodola ha guidato la comunità ad esperire e ad immaginare un nuovo futuro per questo sito di acheologia industriale. La memoria della storia dell’amideria è evocata metaforicamente attraverso le voci degli ex operai e dei loro familiari, in sovrapposizione a esperienze performative che mettono in relazione un corpo umano contemporaneo con i materiali che venivano utilizzati nella produzione. Durante la Prima Guerra Mondiale l’Amideria è stata utilizzata come stazione di soccorso. Questo luogo storico fu un ambiente di lavoro sicuro per le donne e aiutò la società locale a emanciparsi dalla mera società agricola. Trasformò completamente il territorio rurale in uno più progressista, creando nuove ferrovie e aumentando il tasso di alfabetizzazione nella regione. Le incredibili esperienze interconnesse all’interno di questo luogo sono ancora esistenti in relazione all’antica ricerca scientifica che ha permesso all’Amideria di diventare uno dei più importanti e conosciuti produttori di amido naturale in tutto il mondo. La scelta di mantenere il processo tradizionale è stata la ragione della sua chiusura. Nonostante l’amido estratto fosse di altissima qualità, i lunghi tempi necessari per l’intero processo non potevano essere competitivi rispetto ai nuovi processi veloci e chimici introdotti sul mercato. È per questo che oggi si celebra la memoria di Amideria, per ricordare come siano necessarie scelte etiche ed ecologiche al giorno d’oggi, dove il capitalismo distrugge tutti i metodi naturali di trasformazione delle materie prime.

Oreste O-re

Oreste Baccolini
’08”50, 2022

Continuo a lavorare sul territorio.

Anche in questo caso, partire dal territorio dell’appennino tosco-emiliano, dove sono nato, diventa pretesto per rimettere in atto un processo creativo suggerito da qualcosa di inatteso: l’artista Luigi Ontani che ripete attraverso il disegno una propria forma costante di segno.

L’artista Ontani che ri-disegna per tutti una propria identità.  Si tratta di un “prelievo” che innesca e dà forma a ulteriori relazioni e analogie, traslate attraverso l’utilizzo di media plurali che vanno a costruire un nuovo spazio architettonico. Prelievo come processo. “Oreste O-re” è la formula disegnata dall’artista Luigi Ontani, e a me dedicata, sul catalogo della sua mostra dal titolo “Luigi Ontani incontra Giorgio Morandi. Casa mondo” nel 2015. “Oreste O-re”: Oreste re: Oreste Ontani re: Ontani re:  O-O Re! Un ringraziamento particolare al Maestro Luigi Ontani per la sua generosità.

Continuo a lavorare sul territorio.

Anche in questo caso, partire dal territorio dell’appennino tosco-emiliano, dove sono nato, diventa pretesto per rimettere in atto un processo creativo suggerito da qualcosa di inatteso: l’artista Luigi Ontani che ripete attraverso il disegno una propria forma costante di segno.

L’artista Ontani che ri-disegna per tutti una propria identità.  Si tratta di un “prelievo” che innesca e dà forma a ulteriori relazioni e analogie, traslate attraverso l’utilizzo di media plurali che vanno a costruire un nuovo spazio architettonico. Prelievo come processo. “Oreste O-re” è la formula disegnata dall’artista Luigi Ontani, e a me dedicata, sul catalogo della sua mostra dal titolo “Luigi Ontani incontra Giorgio Morandi. Casa mondo” nel 2015. “Oreste O-re”: Oreste re: Oreste Ontani re: Ontani re:  O-O Re! Un ringraziamento particolare al Maestro Luigi Ontani per la sua generosità.

Passages

Marco Rossi
03’41”, 2020

Il lavoro Passages nasce da una ripresa fatta dal mio telefonino il primo gennaio 2020, mentre ero seduto su una panchina del lungomare di Sanremo al tramonto. Il sole freddo e basso dell’inverno accentuava le ombre e il contrasto di questi uomini che si stagliavano come ombre sull’orizzonte nel loro lento e svogliato incedere e le trasformava in figure deformi, sassi, piante, non so… Ho estrapolato i frame dal video e li ho stampati (ritoccandoli) con una tecnica che si chiama “gum print”, e una volta riscannerizzati li ho montati in uno stop motion di 4 minuti circa che si ripete all’infinito. Il titolo è nato come “omaggio” a Charles Baudelaire e ai suoi scritti purtroppo incompiuti “passagès” , nei quale il poeta descriveva seduto nei bulevard parigini il passaggio di un umanità da lui chiaramente descritta in maniera distopica e decadentista.Anche Walter Benjamin ha ripreso questi pochi scritti e li ha usati come spunto per un suo saggio anch’esso dal titolo “passagès” nel cui descrive la fine dello stoicismo e del sogno utopico da cui la cultura europea progressista doveva destarsi… e in fondo aveva ragione.

Il lavoro Passages nasce da una ripresa fatta dal mio telefonino il primo gennaio 2020, mentre ero seduto su una panchina del lungomare di Sanremo al tramonto. Il sole freddo e basso dell’inverno accentuava le ombre e il contrasto di questi uomini che si stagliavano come ombre sull’orizzonte nel loro lento e svogliato incedere e le trasformava in figure deformi, sassi, piante, non so… Ho estrapolato i frame dal video e li ho stampati (ritoccandoli) con una tecnica che si chiama “gum print”, e una volta riscannerizzati li ho montati in uno stop motion di 4 minuti circa che si ripete all’infinito. Il titolo è nato come “omaggio” a Charles Baudelaire e ai suoi scritti purtroppo incompiuti “passagès” , nei quale il poeta descriveva seduto nei bulevard parigini il passaggio di un umanità da lui chiaramente descritta in maniera distopica e decadentista.Anche Walter Benjamin ha ripreso questi pochi scritti e li ha usati come spunto per un suo saggio anch’esso dal titolo “passagès” nel cui descrive la fine dello stoicismo e del sogno utopico da cui la cultura europea progressista doveva destarsi… e in fondo aveva ragione.

Falling

Marco Rossi
01’51”, 2022

“Questa è la storia di un uomo che precipita dal cinquantesimo piano.
E mentre sta precipitando , man mano che cade, per farsi coraggio si ripete: “Fin qui tutto bene… fin qui tutto bene… fin qui tutto bene…”. Ma il problema non è lacaduta … è l’atterraggio.… “

Iniziava così il film capolavoro di  Mathieu Kassovitz “Le Heine-L’odio” che profetizza, attraverso il racconto delle violente rivolte sociali nelle banlieue francesi, il punto di non ritorno che sembra non aver mai smesso di raccontare le realtà sociali della contemporaneità . nel racconto visivo di questa animazione si vedono degli uomini che rotolano in uno spazio vuoto e non atterrano mai, in bilico tra la caduta ,il galleggiamento, la sospensione. Queste figure appaiono e scompaiono, e in sottofondo un mantra sonoro che si ripete all’infinito, inesorabile che accentua ancor di più questa dimensione sospesa di inquietudine … l’importante non è la caduta, ma l’atterraggio.

“Questa è la storia di un uomo che precipita dal cinquantesimo piano.
E mentre sta precipitando , man mano che cade, per farsi coraggio si ripete: “Fin qui tutto bene… fin qui tutto bene… fin qui tutto bene…”. Ma il problema non è lacaduta … è l’atterraggio.… “

Iniziava così il film capolavoro di  Mathieu Kassovitz “Le Heine-L’odio” che profetizza, attraverso il racconto delle violente rivolte sociali nelle banlieue francesi, il punto di non ritorno che sembra non aver mai smesso di raccontare le realtà sociali della contemporaneità . nel racconto visivo di questa animazione si vedono degli uomini che rotolano in uno spazio vuoto e non atterrano mai, in bilico tra la caduta ,il galleggiamento, la sospensione. Queste figure appaiono e scompaiono, e in sottofondo un mantra sonoro che si ripete all’infinito, inesorabile che accentua ancor di più questa dimensione sospesa di inquietudine … l’importante non è la caduta, ma l’atterraggio.

Trasporto eccezionale

Sonia Andresano
00’48”, 2020

“Un camioncino di carta spinto dal vento cerca la giusta frequenza, le stazioni da cui non parte. Non approda mai su quell’isola che non c’è. È il movimento di un sentimento, l’impeto passionale di un viaggio mentale: un trasporto eccezionale”. Con il muso rivolto verso un pezzo di terra, il piccolo camion non parte, resta. Non ha intenzione di sfidare le correnti nel punto in cui si scontrano, non attraversa le acque che bagnano l’Isola delle Femmine, dove vi è il divieto di approdo. Anche la terraferma, sul cui scoglio si è posato il camioncino, porta il medesimo nome: è un viaggio di andata e ritorno nello stesso luogo.

“Un camioncino di carta spinto dal vento cerca la giusta frequenza, le stazioni da cui non parte. Non approda mai su quell’isola che non c’è. È il movimento di un sentimento, l’impeto passionale di un viaggio mentale: un trasporto eccezionale”. Con il muso rivolto verso un pezzo di terra, il piccolo camion non parte, resta. Non ha intenzione di sfidare le correnti nel punto in cui si scontrano, non attraversa le acque che bagnano l’Isola delle Femmine, dove vi è il divieto di approdo. Anche la terraferma, sul cui scoglio si è posato il camioncino, porta il medesimo nome: è un viaggio di andata e ritorno nello stesso luogo.

Selfie, paesaggio contemporaneo

Lavinia Ferrone, Giovanni De Gara
02’23”, 2018

 

Selezionato da Spazio Materia

Una riflessione sull’immagine

sulla fotografia

sull’inquadratura e il soggetto

sul fotografo che entra in campo

su un dito di troppo, ma discreto.

Come tutto sia cambiato con l’avvento degli smartphone e del Selfie.

Niente sarà più come prima, neanche la logica, la funzione, il panorama.

Una riflessione sull’immagine

sulla fotografia

sull’inquadratura e il soggetto

sul fotografo che entra in campo

su un dito di troppo, ma discreto.

Come tutto sia cambiato con l’avvento degli smartphone e del Selfie.

Niente sarà più come prima, neanche la logica, la funzione, il panorama.

Io a Milano non sogno più

Raffaele Cirianni
18’02”, 2023

 

Selezionato da Genealogie del futuro

Io a Milano non sogno più è un cortometraggio in quattro capitoli realizzato da Raffaele Cirianni durante la residenza “Sguardi Urbani” presso Casa degli Artisti a Milano, a cura di Cecilia Guida, Deborah Maggiolo e Paola Pietronave. Nato inizialmente con la prerogativa di essere un archivio onirico allo scopo di mappare quei sogni che spingono giovani da tutta Italia a migrare dalle loro città di origine alla metropoli di Milano, questo progetto si è velocemente trasformato in una ricerca sui sogni che nella città vengono, invece, a morire. Durante la residenza Cirianni ha sperimentato su di sé le dicotomie dell’aura utopica che abita la città, iniziando così un’inchiesta che parte dalla questione del pendolarismo, passando alla speculazione edilizia del quartiere Isola e concludendosi con esempi di mutuo appoggio e resistenza alla gentrificazione e al caro vita, come le proteste di Piazza Leonardo, soprannominate dalla cronaca “la protesta delle tende”. La formula dell’indagine che da vita alla narrazione è ispirata da esperienze filmiche di Dziga Vertov (“L’uomo con la macchina da presa”, 1929), Walter Ruttmann (Berlino – “Sinfonia di una grande città”, 1927) dove la descrizione delle città di Berlino e Mosca viene rappresentata in maniera celebrativa e altisonante durante il periodo di crescita ed espansione delle metropoli moderne. Nel video Cirianni si pone in contrasto con l’idea della grande città come serbatoio di sogni mettendo in atto una contro-narrazione che mostra come questo modello di città crei disparità sociali, privatizzazione ed espansione capitalistica del suolo pubblico con la conseguente speculazione edilizia e immobiliare. Per esempio, il quartiere di Isola è esplicativo delle idiosincrasie della crescita capitalistica e finanziaria, incarnate dalla spudorata vendita del suolo pubblico a favore della privatizzazione e il conseguente inganno del modello “green” finanziato dai grandi colossi petroliferi. Per raccontare questa città dove non si sogna più viene messo in atto un processo di contro-narrazione, che è anche estetico, in cui una macchina da presa obsoleta, il bianco e nero e la formula del documentario di inchiesta indipendente, fanno da contuttori dello sguardo schiacciato dall’imponenza del progresso simboleggiato dai grattacieli che rappresentano il modello distopico contemporaneo. L’inchiesta non pone quindi una soluzione, ma si presenta come una domanda aperta che trova un’unica luce di speranza nelle pratiche di cura e di mutuo appoggio, forme di resistenza collettiva schierate per contrastare le distopiche utopie di cui Milano si fa portatrice

Io a Milano non sogno più è un cortometraggio in quattro capitoli realizzato da Raffaele Cirianni durante la residenza “Sguardi Urbani” presso Casa degli Artisti a Milano, a cura di Cecilia Guida, Deborah Maggiolo e Paola Pietronave. Nato inizialmente con la prerogativa di essere un archivio onirico allo scopo di mappare quei sogni che spingono giovani da tutta Italia a migrare dalle loro città di origine alla metropoli di Milano, questo progetto si è velocemente trasformato in una ricerca sui sogni che nella città vengono, invece, a morire. Durante la residenza Cirianni ha sperimentato su di sé le dicotomie dell’aura utopica che abita la città, iniziando così un’inchiesta che parte dalla questione del pendolarismo, passando alla speculazione edilizia del quartiere Isola e concludendosi con esempi di mutuo appoggio e resistenza alla gentrificazione e al caro vita, come le proteste di Piazza Leonardo, soprannominate dalla cronaca “la protesta delle tende”. La formula dell’indagine che da vita alla narrazione è ispirata da esperienze filmiche di Dziga Vertov (“L’uomo con la macchina da presa”, 1929), Walter Ruttmann (Berlino – “Sinfonia di una grande città”, 1927) dove la descrizione delle città di Berlino e Mosca viene rappresentata in maniera celebrativa e altisonante durante il periodo di crescita ed espansione delle metropoli moderne. Nel video Cirianni si pone in contrasto con l’idea della grande città come serbatoio di sogni mettendo in atto una contro-narrazione che mostra come questo modello di città crei disparità sociali, privatizzazione ed espansione capitalistica del suolo pubblico con la conseguente speculazione edilizia e immobiliare. Per esempio, il quartiere di Isola è esplicativo delle idiosincrasie della crescita capitalistica e finanziaria, incarnate dalla spudorata vendita del suolo pubblico a favore della privatizzazione e il conseguente inganno del modello “green” finanziato dai grandi colossi petroliferi. Per raccontare questa città dove non si sogna più viene messo in atto un processo di contro-narrazione, che è anche estetico, in cui una macchina da presa obsoleta, il bianco e nero e la formula del documentario di inchiesta indipendente, fanno da contuttori dello sguardo schiacciato dall’imponenza del progresso simboleggiato dai grattacieli che rappresentano il modello distopico contemporaneo. L’inchiesta non pone quindi una soluzione, ma si presenta come una domanda aperta che trova un’unica luce di speranza nelle pratiche di cura e di mutuo appoggio, forme di resistenza collettiva schierate per contrastare le distopiche utopie di cui Milano si fa portatrice

La terra dei fiori II° Atto Trilogia del possibile

Sasha Vinci, Maria Grazia Galesi
06’21”, 2017

 

Selezionato da AA29 art project

Il progetto La terra dei fiori del duo Sasha Vinci e Maria Grazia Galesi è una grande metafora. Una metafora che nasce da una necessità sentita, e che si innesta su modalità, contenuti e relazioni sedimentati nell’arco di anni. Il progetto si nutre di una serie di convergenze. Coerentemente con l’impostazione performativa del lavoro di dei due artisti, l’aspetto scenico è fondamentale; il progetto prende anzitutto la forma di una coreografia articolata in più tempi: una sorta di rituale, e come ogni rituale, La terra dei fiori si nega a ogni univoca decodifica; vive in parte di una propria evidenza, ed esprime un’energia, una forza vitale, quasi magica. Ma non solo. Tutto avviene in due aree: la cittadina siciliana di Scicli e il suo territorio, e la terra dei fuochi, in Campania. Anche se il riferimento è a una storia molto più grande. Vinci/Galesi si concentrano su luoghi connotati da una estrema teatralità. Tra questi compare l’antica Chiesa di San Matteo, la Mater Ecclesiae che splendidamente sovrasta Scicli dall’alto. Dopo un periodo di degrado l’edificio fu restaurato; solo per essere nuovamente abbandonato: una vicenda di incuria tristemente emblematica. C’è inoltre la costa di Sampieri, sempre nei pressi di Scicli, con la sua magnifica spiaggia; una spiaggia che è gioia dei bagnanti, ma che ci appare ben più aspra se pensiamo che è anche punto di approdo di tanti migranti, e per alcuni di loro tragico fine-viaggio. E non è un caso che per la messa in scena della loro performance i due artisti abbiano scelto l’imbrunire: una decisione che conferisce alle immagini un effetto intimo, onirico, enigmatico; che contrasta però con il motivo della scelta; l’orario è quello dello spiaggiamento di tredici migranti avvenuto a Sampieri il 30 settembre 2013. Infine la grandiosa Reggia di Caserta, sede della mostra e, in occasione dell’inaugurazione, della performance. Un edificio che si imponeva un tempo sulla fertile e splendida Campania felix. Oggi ai suoi piedi si stende il territorio devastato della terra dei fuochi; un’area la cui condizione è paradigmatica di un rapporto tra il territorio e i suoi abitanti basato sull’arroganza, sullo sfruttamento e sull’illegalità. Gli elementi fondamentali del progetto sono dedotti da un rituale tuttora in uso a Scicli: l’Infiorata di San Giuseppe; un rituale che Sasha Vinci e Maria Grazia Galesi sentono non solo nella dimensione esteriore, ma come modello attraverso il quale dare forma e significato alle relazioni interpersonali e al sentire collettivo. Perché il rito, come l’arte, è anche modalità di conoscenza, ricerca di senso, e ambito creativo in cui il singolo e la collettività si esprimono. Non solo; oltre a rispecchiare e sancire condizioni sociali, relazioni interpersonali e abitudini mentali, l’azione rituale parte dal presupposto che il rito possa contribuire attivamente a crearle. L’azione di La terra dei fiori fa ricorso a simboli primari: i fiori, anzitutto, ricorrenti nel progetto sotto diverse forme. Con i fiori gli artisti creano una serie di poliedri, simboli antichi di equilibrio e di conoscenza, presenti sin dall’antichità nel pensiero occidentale; e realizzano due cappe con cui si coprono, fino a oscurare completamente le proprie singole personalità; così celati allo sguardo, cercano di instaurare una rinnovata relazione con il contesto. Con un terzo manto, infine, bardano lo stallone nero frisone, Eros, protagonista dell’Infiorata di Scicli. I fiori sono da sempre simbolo di vita e di bellezza. Ma Vinci/Galesi hanno scelto di utilizzare crisantemini e gerbere: fiori che vengono coltivati intensivamente in entrambe le aree di riferimento del progetto, e che in Italia sono associati alla situazione del lutto. Il riferimento è dunque tanto alla morte e ai rituali che la accompagnano, quanto alla violenza delle logiche di un profitto cieco e ai suoi mortiferi effetti sull’ambiente. Ha un ruolo centrale nel progetto il cavallo, magnifico compagno della loro avventura, figura iconica e monumentale, espressione di fierezza, di forza vitale, di sensibilità; e simbolo di un necessario rapporto di rispetto tra l’uomo e le altre creature. Alla sua figura i due artisti affidano il momento culminante del loro intervento, con il corteo infiorato del cavallo e dei bardatori che avanza sul viale rettilineo, verso la scalinata della Reggia. Vinci/Galesi hanno inoltre realizzato, in inchiostri naturali e pigmenti, una serie di disegni. E sempre manipolando con tecnica antica la terra, più precisamente la terra di Acerra, hanno dato forma ad alcuni mattoni che portano incisa la parola “Felix”. Così, alle forze distruttive che sembrano essere riuscite ad impadronirsi dei comportamenti e dei pensieri e che hanno determinato la devastazione ambientale del territorio siciliano, di quello campano, e per estensione di molte aree del villaggio globale, gli artisti oppongono l’elemento costruttivo per eccellenza, il modulo di base di ogni edificare: il mattone; sul quale incidono la memoria – e la speranza – di un equilibrio possibile, avanzando così la nozione di un passato che fu diverso e di un possibile futuro. Alla mancanza di riguardo e al collasso morale che queste due aree d’Italia testimoniano, i due artisti rispondono contrapponendo la memoria collettiva e culturale trasmessa dalla sapienza artigianale e recuperando l’idea di relazioni basate sulla cura e sul rispetto. Del resto, già nel suo essere un progetto a quattro mani, La terra dei fiori porta con sé un senso di condivisione. Nel lavoro emergono dunque le grandi dicotomie: natura e cultura, umano e animale, vita e morte, visibile e invisibile, rapporto con il proprio habitat, o sfruttamento. La terra dei fiori è un modo di confrontarsi con il tempo presente, calandosi nelle relazioni e nei rapporti di potere. Di parlare di valori, disvalori, di degrado e di una potenziale rinascita; è un modo di reagire all’arroganza opponendole la forza vitale, l’aspirazione, il desiderio. (Gabi Scardi)

Il progetto La terra dei fiori del duo Sasha Vinci e Maria Grazia Galesi è una grande metafora. Una metafora che nasce da una necessità sentita, e che si innesta su modalità, contenuti e relazioni sedimentati nell’arco di anni. Il progetto si nutre di una serie di convergenze. Coerentemente con l’impostazione performativa del lavoro di dei due artisti, l’aspetto scenico è fondamentale; il progetto prende anzitutto la forma di una coreografia articolata in più tempi: una sorta di rituale, e come ogni rituale, La terra dei fiori si nega a ogni univoca decodifica; vive in parte di una propria evidenza, ed esprime un’energia, una forza vitale, quasi magica. Ma non solo. Tutto avviene in due aree: la cittadina siciliana di Scicli e il suo territorio, e la terra dei fuochi, in Campania. Anche se il riferimento è a una storia molto più grande. Vinci/Galesi si concentrano su luoghi connotati da una estrema teatralità. Tra questi compare l’antica Chiesa di San Matteo, la Mater Ecclesiae che splendidamente sovrasta Scicli dall’alto. Dopo un periodo di degrado l’edificio fu restaurato; solo per essere nuovamente abbandonato: una vicenda di incuria tristemente emblematica. C’è inoltre la costa di Sampieri, sempre nei pressi di Scicli, con la sua magnifica spiaggia; una spiaggia che è gioia dei bagnanti, ma che ci appare ben più aspra se pensiamo che è anche punto di approdo di tanti migranti, e per alcuni di loro tragico fine-viaggio. E non è un caso che per la messa in scena della loro performance i due artisti abbiano scelto l’imbrunire: una decisione che conferisce alle immagini un effetto intimo, onirico, enigmatico; che contrasta però con il motivo della scelta; l’orario è quello dello spiaggiamento di tredici migranti avvenuto a Sampieri il 30 settembre 2013. Infine la grandiosa Reggia di Caserta, sede della mostra e, in occasione dell’inaugurazione, della performance. Un edificio che si imponeva un tempo sulla fertile e splendida Campania felix. Oggi ai suoi piedi si stende il territorio devastato della terra dei fuochi; un’area la cui condizione è paradigmatica di un rapporto tra il territorio e i suoi abitanti basato sull’arroganza, sullo sfruttamento e sull’illegalità. Gli elementi fondamentali del progetto sono dedotti da un rituale tuttora in uso a Scicli: l’Infiorata di San Giuseppe; un rituale che Sasha Vinci e Maria Grazia Galesi sentono non solo nella dimensione esteriore, ma come modello attraverso il quale dare forma e significato alle relazioni interpersonali e al sentire collettivo. Perché il rito, come l’arte, è anche modalità di conoscenza, ricerca di senso, e ambito creativo in cui il singolo e la collettività si esprimono. Non solo; oltre a rispecchiare e sancire condizioni sociali, relazioni interpersonali e abitudini mentali, l’azione rituale parte dal presupposto che il rito possa contribuire attivamente a crearle. L’azione di La terra dei fiori fa ricorso a simboli primari: i fiori, anzitutto, ricorrenti nel progetto sotto diverse forme. Con i fiori gli artisti creano una serie di poliedri, simboli antichi di equilibrio e di conoscenza, presenti sin dall’antichità nel pensiero occidentale; e realizzano due cappe con cui si coprono, fino a oscurare completamente le proprie singole personalità; così celati allo sguardo, cercano di instaurare una rinnovata relazione con il contesto. Con un terzo manto, infine, bardano lo stallone nero frisone, Eros, protagonista dell’Infiorata di Scicli. I fiori sono da sempre simbolo di vita e di bellezza. Ma Vinci/Galesi hanno scelto di utilizzare crisantemini e gerbere: fiori che vengono coltivati intensivamente in entrambe le aree di riferimento del progetto, e che in Italia sono associati alla situazione del lutto. Il riferimento è dunque tanto alla morte e ai rituali che la accompagnano, quanto alla violenza delle logiche di un profitto cieco e ai suoi mortiferi effetti sull’ambiente. Ha un ruolo centrale nel progetto il cavallo, magnifico compagno della loro avventura, figura iconica e monumentale, espressione di fierezza, di forza vitale, di sensibilità; e simbolo di un necessario rapporto di rispetto tra l’uomo e le altre creature. Alla sua figura i due artisti affidano il momento culminante del loro intervento, con il corteo infiorato del cavallo e dei bardatori che avanza sul viale rettilineo, verso la scalinata della Reggia. Vinci/Galesi hanno inoltre realizzato, in inchiostri naturali e pigmenti, una serie di disegni. E sempre manipolando con tecnica antica la terra, più precisamente la terra di Acerra, hanno dato forma ad alcuni mattoni che portano incisa la parola “Felix”. Così, alle forze distruttive che sembrano essere riuscite ad impadronirsi dei comportamenti e dei pensieri e che hanno determinato la devastazione ambientale del territorio siciliano, di quello campano, e per estensione di molte aree del villaggio globale, gli artisti oppongono l’elemento costruttivo per eccellenza, il modulo di base di ogni edificare: il mattone; sul quale incidono la memoria – e la speranza – di un equilibrio possibile, avanzando così la nozione di un passato che fu diverso e di un possibile futuro. Alla mancanza di riguardo e al collasso morale che queste due aree d’Italia testimoniano, i due artisti rispondono contrapponendo la memoria collettiva e culturale trasmessa dalla sapienza artigianale e recuperando l’idea di relazioni basate sulla cura e sul rispetto. Del resto, già nel suo essere un progetto a quattro mani, La terra dei fiori porta con sé un senso di condivisione. Nel lavoro emergono dunque le grandi dicotomie: natura e cultura, umano e animale, vita e morte, visibile e invisibile, rapporto con il proprio habitat, o sfruttamento. La terra dei fiori è un modo di confrontarsi con il tempo presente, calandosi nelle relazioni e nei rapporti di potere. Di parlare di valori, disvalori, di degrado e di una potenziale rinascita; è un modo di reagire all’arroganza opponendole la forza vitale, l’aspirazione, il desiderio. (Gabi Scardi)

Cin (come iniziare nuovamente)

Francesco Re Li Calzi
03’06”, 2023

 

Selezionato da Hidden Garage

L’artista con l’opera video CIN (come iniziare nuovamente) si interroga sulle strategie di sopravvivenza creativa all’interno dei sistemi di potere.


L’artista con l’opera video CIN (come iniziare nuovamente) si interroga sulle strategie di sopravvivenza creativa all’interno dei sistemi di potere.

Elephant in the Room

Edoardo Aruta
05’08”, 2019

 

Selezionato da Osservatorio Futura

Elephant in the room è un progetto video prodotto e curato da Microclima (Venezia) durante il programma di residenza Guwahati Research Program nel mese di febbraio 2019. Il video girato nella casa di Dudul Chowdhuri nella città di Guwahati, in Assam nel nord est dell’India, coinvolge Dudul stesso a consumare un pasto insieme ad uno degli elefanti che vivono nella sua prorpietà, Monimala una femmina di 26 anni. The Elephant in the room è un’espressione in uso nei paesi anglosassoni comunemente descritta con un’immagine in cui un numero indefinito di persone conversano in un salotto indifferenti alla sorprendente presenza di un elefante. L’espressione si riferisce ad una criticità evidente ma di cui nessuno vuole discutere; per allontanare da sé dolore, frustrazione e disagio, si rifiuta più o meno coscientemente di riconoscere la concretezza e la realtà di un fatto, o la provata fondatezza di un’affermazione. Questo atteggiamento si può trovare anche a livello sociale e può riguardare un’intera comunità; è solitamente adottato in presenza di tabù sociali, situazioni imbarazzanti o particolari criticità sociali e politiche.  La presenza decontestualizzata dell’elefantessa nel soggiorno che condivide un pasto insieme a Dudul contrasta pertanto l’espressione metaforica che invece indica una verità ignorata o minimizzata per quanto incontestabilmente ingombrante. Nel video la presenza dell’animale viene sottolineata dall’attenzione che un individuo vi dedica e non dalla sua indifferenza, il contesto antropizzato della sala da pranzo appare come un ambiente di biodiversità in cui la compresenza straordinaria dei due soggetti si manifesta come un naturale rapporto quotidiano.

Elephant in the room è un progetto video prodotto e curato da Microclima (Venezia) durante il programma di residenza Guwahati Research Program nel mese di febbraio 2019. Il video girato nella casa di Dudul Chowdhuri nella città di Guwahati, in Assam nel nord est dell’India, coinvolge Dudul stesso a consumare un pasto insieme ad uno degli elefanti che vivono nella sua prorpietà, Monimala una femmina di 26 anni. The Elephant in the room è un’espressione in uso nei paesi anglosassoni comunemente descritta con un’immagine in cui un numero indefinito di persone conversano in un salotto indifferenti alla sorprendente presenza di un elefante. L’espressione si riferisce ad una criticità evidente ma di cui nessuno vuole discutere; per allontanare da sé dolore, frustrazione e disagio, si rifiuta più o meno coscientemente di riconoscere la concretezza e la realtà di un fatto, o la provata fondatezza di un’affermazione. Questo atteggiamento si può trovare anche a livello sociale e può riguardare un’intera comunità; è solitamente adottato in presenza di tabù sociali, situazioni imbarazzanti o particolari criticità sociali e politiche.  La presenza decontestualizzata dell’elefantessa nel soggiorno che condivide un pasto insieme a Dudul contrasta pertanto l’espressione metaforica che invece indica una verità ignorata o minimizzata per quanto incontestabilmente ingombrante. Nel video la presenza dell’animale viene sottolineata dall’attenzione che un individuo vi dedica e non dalla sua indifferenza, il contesto antropizzato della sala da pranzo appare come un ambiente di biodiversità in cui la compresenza straordinaria dei due soggetti si manifesta come un naturale rapporto quotidiano.

The Cost of Lies

Artiom Constantinov
08’10’’, 2020

 

Selezionato da MiDi Motori Digitali

The Cost of Lies è una composizione audiovisiva sul cambiamento climatico come risultato del capitalismo globale. Dati su gas serra, riscaldamento globale, livello del mare, incendi nelle terre selvagge, produzione di armi da fuoco e la produzione di carne vengono usati per controllare e manipolare l’audio e il video generando nuove immagini e suoni.

The Cost of Lies è una composizione audiovisiva sul cambiamento climatico come risultato del capitalismo globale. Dati su gas serra, riscaldamento globale, livello del mare, incendi nelle terre selvagge, produzione di armi da fuoco e la produzione di carne vengono usati per controllare e manipolare l’audio e il video generando nuove immagini e suoni.

Fungi-Fi

Enrico Dedin
01’02’’, 2022

Fungi-Fi è un fake brand e product launch event che proietta nel nostro presente della post-verità un’invenzione rivoluzionaria, in apparenza salvifica, che sembra uscita da un film fantascientifico.  Fungi-Fi ha infatti i tratti di una distopia ecologica, un possibile futuro nell’Antropocene in cui l’umanità risolve le emissioni di CO2 schiavizzando l’intero regno vegetale per garantirsi una super connessione internet. Come? Inventando un wi-fi capace di captare gli impulsi elettrici del Wood Wide Web, connettendosi così a tale internet dei boschi, la rete micorrizica scoperta da Suzanne Simard. Con un linguaggio persuasivo ed enfatico tipico dello storytelling pubblicitario, Fungi-Fi intende riflettere sul rapporto uomo-natura in funzione al progresso tecno-scientifico. Evidenziando sia il vizio antropocentrico dell’umanità di pensare l’ambiente solo come una risorsa da sfruttare, sia la mania di mercificare ogni conoscenza, cosa e creatura in virtù di un sempreverde consumismo.

Fungi-Fi è un fake brand e product launch event che proietta nel nostro presente della post-verità un’invenzione rivoluzionaria, in apparenza salvifica, che sembra uscita da un film fantascientifico.  Fungi-Fi ha infatti i tratti di una distopia ecologica, un possibile futuro nell’Antropocene in cui l’umanità risolve le emissioni di CO2 schiavizzando l’intero regno vegetale per garantirsi una super connessione internet. Come? Inventando un wi-fi capace di captare gli impulsi elettrici del Wood Wide Web, connettendosi così a tale internet dei boschi, la rete micorrizica scoperta da Suzanne Simard. Con un linguaggio persuasivo ed enfatico tipico dello storytelling pubblicitario, Fungi-Fi intende riflettere sul rapporto uomo-natura in funzione al progresso tecno-scientifico. Evidenziando sia il vizio antropocentrico dell’umanità di pensare l’ambiente solo come una risorsa da sfruttare, sia la mania di mercificare ogni conoscenza, cosa e creatura in virtù di un sempreverde consumismo.

Nature Training Center

Enrico Dedin
04’42’’, 2021

Il lockdown pandemico ha accelerato un trend già in corso. La natura, da luogo sacro dove riattivare i sensi e ritrovare sé stessi, si è trasformata in un’area fitness & sport. Le zone verdi urbane ed extraurbane sono invase da un nuovo paradigma di umanità. Dal pellegrino medievale al flâneur ottocentesco, sino al runner contemporaneo. Una parabola discendente verso un individuo sport-addicted, ossessionato dal culto del corpo tonico e atletico. Bruciare calorie, ridurre la massa grassa: questi gli obbiettivi di una guerra quotidiana contro un nemico che non sconfiggeranno mai: l’invecchiamento. Come riconoscerli? Dalla divisa: colori fluo, abbigliamento tecnico e dri-fit, cuffie wireless e dispositivi hi-tech per monitorare gli allenamenti. E dallo stile di vita: piani di training ferrei, dieta ipocalorica e iperproteica, playlist e frasi motivazionali, selfie post-workout e foto “before and after”. Un modello antropologico formato dalla fitness culture e dai canoni della società post-digitale. Nature Training Center è l’immagine di un ambiente ibrido tra natura, palestra e social media. Una pista da corsa, una timeline frenetica di dati biometrici e social a ritmo di musica. Un mix di piani e linguaggi dove emerge un unico dogma: I train therefore I am.

Il lockdown pandemico ha accelerato un trend già in corso. La natura, da luogo sacro dove riattivare i sensi e ritrovare sé stessi, si è trasformata in un’area fitness & sport. Le zone verdi urbane ed extraurbane sono invase da un nuovo paradigma di umanità. Dal pellegrino medievale al flâneur ottocentesco, sino al runner contemporaneo. Una parabola discendente verso un individuo sport-addicted, ossessionato dal culto del corpo tonico e atletico. Bruciare calorie, ridurre la massa grassa: questi gli obbiettivi di una guerra quotidiana contro un nemico che non sconfiggeranno mai: l’invecchiamento. Come riconoscerli? Dalla divisa: colori fluo, abbigliamento tecnico e dri-fit, cuffie wireless e dispositivi hi-tech per monitorare gli allenamenti. E dallo stile di vita: piani di training ferrei, dieta ipocalorica e iperproteica, playlist e frasi motivazionali, selfie post-workout e foto “before and after”. Un modello antropologico formato dalla fitness culture e dai canoni della società post-digitale. Nature Training Center è l’immagine di un ambiente ibrido tra natura, palestra e social media. Una pista da corsa, una timeline frenetica di dati biometrici e social a ritmo di musica. Un mix di piani e linguaggi dove emerge un unico dogma: I train therefore I am.

Walking Through, Walking Against

Kamilia Kard
30’01”, 2020

Walking Through, Walking Against è un video machinima girato nel primo livello di Journey, un gioco indie d’avventura sviluppato da Thatgamecompany e Santa Monica Studio nel 2012, e diretto da Jenova Chen. Nel gioco, il giocatore assume il ruolo di una figura incappucciata in un deserto, punto di partenza per percorrere il viaggio che lo porterà alla sua meta. Raggiungere la montagna è la missione del gioco, che conduce il giocatore attraverso vari ambienti e situazioni, e occasionalmente a incontrare altri giocatori che intraprendono il loro stesso viaggio contemporaneamente. Giocare a Journey ha assunto un nuovo significato nei tempi di confinamento. Dopo aver raggiunto la montagna, sono tornato nel deserto, l’ambiente che mi affascinava di più, e ho iniziato a testare la sua apparente infinità. Quello che ho capito quando sono arrivato al limite della mappa è che i designer non hanno creato un confine visibile, fisico e solido, come l’abisso attorno alle mappe dei vecchi giochi o il muro dipinto costruito attorno al set del Truman Show: il confine del deserto di Journey è invisibile, poroso, morbido ma allo stesso tempo inflessibile nel resistere ai tentativi di attraversarlo. È fatto di vento, e ti consente di fare pochi passi dopo l’orlo dell’ultima duna solo per ributtarti indietro nel giro di pochi secondi, donandoti ogni volta l’illusione di poterlo oltrepassare. Walking Through, Walking Against è una performance di trenta minuti, nella quale ho cercato di andare oltre questo confine morbido e invisibile per lasciare il deserto. Non importa quanto vasto possa sembrare, il deserto è comunque una prigione. Sono salita su una duna e ho camminato lungo il suo bordo, cercando ripetutamente di superarla, alla ricerca di una falla lungo questa recinzione impalpabile. Questa performance di resistenza, motivata dalla speranza ma inevitabilmente destinata al fallimento, offre a me – così come allo spettatore – l’opportunità di riflettere sullo stato di confinamento che abbiamo vissuto durante la pandemia e, più ampiamente, sul crescente numero di confini invisibili che limitano la nostra libertà personale in una società globalizzata, iperconnessa e apparentemente senza confini: il controllo morbido dei media, l’invasione biopolitica del nostro spazio privato, le condizioni d’uso che sorvegliano lo spazio pubblico online, i pregiudizi di genere e razziali che ancora regolano la nostra società e impediscono alle donne l’accesso a uno spazio o status prestabilito.

Walking Through, Walking Against è un video machinima girato nel primo livello di Journey, un gioco indie d’avventura sviluppato da Thatgamecompany e Santa Monica Studio nel 2012, e diretto da Jenova Chen. Nel gioco, il giocatore assume il ruolo di una figura incappucciata in un deserto, punto di partenza per percorrere il viaggio che lo porterà alla sua meta. Raggiungere la montagna è la missione del gioco, che conduce il giocatore attraverso vari ambienti e situazioni, e occasionalmente a incontrare altri giocatori che intraprendono il loro stesso viaggio contemporaneamente. Giocare a Journey ha assunto un nuovo significato nei tempi di confinamento. Dopo aver raggiunto la montagna, sono tornato nel deserto, l’ambiente che mi affascinava di più, e ho iniziato a testare la sua apparente infinità. Quello che ho capito quando sono arrivato al limite della mappa è che i designer non hanno creato un confine visibile, fisico e solido, come l’abisso attorno alle mappe dei vecchi giochi o il muro dipinto costruito attorno al set del Truman Show: il confine del deserto di Journey è invisibile, poroso, morbido ma allo stesso tempo inflessibile nel resistere ai tentativi di attraversarlo. È fatto di vento, e ti consente di fare pochi passi dopo l’orlo dell’ultima duna solo per ributtarti indietro nel giro di pochi secondi, donandoti ogni volta l’illusione di poterlo oltrepassare. Walking Through, Walking Against è una performance di trenta minuti, nella quale ho cercato di andare oltre questo confine morbido e invisibile per lasciare il deserto. Non importa quanto vasto possa sembrare, il deserto è comunque una prigione. Sono salita su una duna e ho camminato lungo il suo bordo, cercando ripetutamente di superarla, alla ricerca di una falla lungo questa recinzione impalpabile. Questa performance di resistenza, motivata dalla speranza ma inevitabilmente destinata al fallimento, offre a me – così come allo spettatore – l’opportunità di riflettere sullo stato di confinamento che abbiamo vissuto durante la pandemia e, più ampiamente, sul crescente numero di confini invisibili che limitano la nostra libertà personale in una società globalizzata, iperconnessa e apparentemente senza confini: il controllo morbido dei media, l’invasione biopolitica del nostro spazio privato, le condizioni d’uso che sorvegliano lo spazio pubblico online, i pregiudizi di genere e razziali che ancora regolano la nostra società e impediscono alle donne l’accesso a uno spazio o status prestabilito.

Run, baby!!!

Francesca Lolli
05’42”, 2022

Costruito come un videogioco anni 90, Run, baby!!! è una video performance che ci mostra le gesta di una supereroina femminista che cerca di combattere contro la violenza di genere, rimanendone alla fine schiacciata.

Costruito come un videogioco anni 90, Run, baby!!! è una video performance che ci mostra le gesta di una supereroina femminista che cerca di combattere contro la violenza di genere, rimanendone alla fine schiacciata.

La santa e la puttana

Francesca Lolli
06’30”, 2021

Il video parla della circolarità e dell’eterno ritorno del patriarcato.

Il video parla della circolarità e dell’eterno ritorno del patriarcato.

Spiritus mundi pt.1

Domenico Ruccia
10’10”, 2023

 

Selezionato da Officina 15

Il progetto Spiritus mundi è il risultato di un processo di approfondimento di un preciso periodo storico, principalmente il ventennio 70’-80’. I video proposti ripropongono la rilettura – in chiave parodistica e a tratti ironica – del mondo dello spettacolo italiano e straniero di quegli anni, dove cinema, moda, musica e pubblicità si intrecciano e diventano il mezzo ideale per delineare l’estetica di quei decenni. La serie nasce infatti dalla volontà di racchiudere in un unico progetto i riferimenti che caratterizzano l’immaginario dell’artista, e che rapportano l’estetica di quegli anni con diversi aspetti del contemporaneo: in questo atlas personale vengono incluse scene vintage tratte dalla cinematografia italiana e straniera (Fantozzi, Il settimo sigillo), pubblicità commerciali (J&B), riferimenti a personaggi politici e al mondo della moda (Margareth Thatcher, Kansai Yamamoto), nonché citazioni di dipinti precedentemente realizzati. Il video presenta un continuo susseguirsi di clip d’epoca, come spezzoni di spot pubblicitari, pellicole cinematografiche e documentari storici e di moda. Il tutto, riprodotto in assenza di audio, permette una coinvolgimento diretto ed immediato, che in un contesto installativo viene risaltato dal contrasto dell’utilizzo di un moderno ventilatore a led che proietta senza soluzione di continuità queste immagini di repertorio. Attraverso l’accostamento e la sovrapposizione delle immagini, l’artista cerca di evidenziare come l’utilizzo di molteplici linguaggi sia lo strumento ideale per far dialogare il passato con il presente, riflettendo su cosa rimane del nostro heritage in relazione alle nuove tendenze dell’epoca digitale. Questi piccoli divertissement sono quindi delle citazioni, delle sequenze che permettono di giocare con altri decenni per interagire in maniera più consapevole con il contemporaneo.

Il progetto Spiritus mundi è il risultato di un processo di approfondimento di un preciso periodo storico, principalmente il ventennio 70’-80’. I video proposti ripropongono la rilettura – in chiave parodistica e a tratti ironica – del mondo dello spettacolo italiano e straniero di quegli anni, dove cinema, moda, musica e pubblicità si intrecciano e diventano il mezzo ideale per delineare l’estetica di quei decenni. La serie nasce infatti dalla volontà di racchiudere in un unico progetto i riferimenti che caratterizzano l’immaginario dell’artista, e che rapportano l’estetica di quegli anni con diversi aspetti del contemporaneo: in questo atlas personale vengono incluse scene vintage tratte dalla cinematografia italiana e straniera (Fantozzi, Il settimo sigillo), pubblicità commerciali (J&B), riferimenti a personaggi politici e al mondo della moda (Margareth Thatcher, Kansai Yamamoto), nonché citazioni di dipinti precedentemente realizzati. Il video presenta un continuo susseguirsi di clip d’epoca, come spezzoni di spot pubblicitari, pellicole cinematografiche e documentari storici e di moda. Il tutto, riprodotto in assenza di audio, permette una coinvolgimento diretto ed immediato, che in un contesto installativo viene risaltato dal contrasto dell’utilizzo di un moderno ventilatore a led che proietta senza soluzione di continuità queste immagini di repertorio. Attraverso l’accostamento e la sovrapposizione delle immagini, l’artista cerca di evidenziare come l’utilizzo di molteplici linguaggi sia lo strumento ideale per far dialogare il passato con il presente, riflettendo su cosa rimane del nostro heritage in relazione alle nuove tendenze dell’epoca digitale. Questi piccoli divertissement sono quindi delle citazioni, delle sequenze che permettono di giocare con altri decenni per interagire in maniera più consapevole con il contemporaneo.

Ballata per Nerina che saluta

Federico Ghillino
04’ 29’’, 2023

Nerina Rossa è andata a combattere con la resistenza – chi non resiste è complice del regime, diceva. Venere Rossa si è arruolata: il suo sogno era l’ordine, ed era disposta a pagarlo molto caro. Sulla loro vita e sull’Italia intera si stagliava un conflitto intestino a cui non si potevano sottrarre, erano costrette a fare i conti con loro stesse, con la storia e con tutte le persone che ne prendevano parte. “Ballata per Nerina cha saluta” utilizza la poesia e l’immagine per raccontare il dramma di una guerra civile deflagrata irreversibilmente su un amore sororale. Questo racconto è parte della saga Cronica familiare di Miranda e Costante e di molti altri che nulla hanno potuto: un progetto intermediale che vede già sue incarnazioni in Sinottiche ventiquattrore (edito dalla rivista online Formavera, 2022) e in Parabola di Fera Infèri che volle uccidere ed uccise (serie e libro editi da Howphelia.com, 2022).

Nerina Rossa è andata a combattere con la resistenza – chi non resiste è complice del regime, diceva. Venere Rossa si è arruolata: il suo sogno era l’ordine, ed era disposta a pagarlo molto caro. Sulla loro vita e sull’Italia intera si stagliava un conflitto intestino a cui non si potevano sottrarre, erano costrette a fare i conti con loro stesse, con la storia e con tutte le persone che ne prendevano parte. “Ballata per Nerina cha saluta” utilizza la poesia e l’immagine per raccontare il dramma di una guerra civile deflagrata irreversibilmente su un amore sororale. Questo racconto è parte della saga Cronica familiare di Miranda e Costante e di molti altri che nulla hanno potuto: un progetto intermediale che vede già sue incarnazioni in Sinottiche ventiquattrore (edito dalla rivista online Formavera, 2022) e in Parabola di Fera Infèri che volle uccidere ed uccise (serie e libro editi da Howphelia.com, 2022).

La Doratura

Il Pesce d’Oro
03’38”, 2019

Direzione Artistica: Samanta Cinquini Mia & Micaela Leonardi

Performer: Micaela Leonardi

Musiche: Manuelisa Reggibile Fenn

Produzione: La Cameranera

E vidi, tra le persiane – per andare in bagno alla notte – in mezzo al lago “saranno state le 5:00” due donne impegnate in un particolare gesto. L’una in piedi, chiaramente dalla chioma generosa e rossa – orfica; pescare al lume di lanterne cinesi appese sul natante e l’altra “con l’aiuto del cannocchiale poichè il buio ancora intercedeva gli occhi” mariana nel suo candore imprevisto intenta a pulire i pesci ricoverati nella barca con tale maestria da parere nata per questo. Mi ferì nella lente d’improvviso un bagliore minuto. La celeste non mondava soltanto l’animale bensì ne estraeva la lisca e proseguiva con il dorarla.

La favola inedita, risponde oltre che al gioco della visione ad una riflessione allargata sulla nozione di Dono. Il concetto di dono di Bataille è profondamente radicato nell’idea di sacrificio e nell’eccesso. Nel libro “La parte maledetta” (“La part maudite”), pubblicato nel 1949, Bataille esplora la natura del dono e la sua relazione con il sacro e l’economia. Egli parte dall’osservazione che il dono è una delle prime forme di scambio umano, precedente al concetto di economia razionale basata su calcoli di utilità e profitto. Il dono, secondo Bataille, è una forma di eccesso, dove il donatore dà senza aspettarsi un ritorno equivalente. Questo eccesso è speso senza calcoli, in un gesto di dissipazione o spreco, e ciò lo collega al sacro.
Bataille considera il dono come una forma di sacrificio, in cui il donatore rinuncia a qualcosa di suo per darlo ad altri. Questa rinuncia e perdita sono fondamentali per la sua concezione del dono come atto sacro. Egli collega questa idea al concetto di “economia generale” (économie générale), dove il surplus prodotto dalla società non è destinato alla produzione o all’accumulazione di beni, ma è speso in attività che sono al di fuori della sfera economica razionale. Ciò include attività artistiche, rituali, giochi, feste e altre espressioni di eccesso e perdita che caratterizzano la condizione umana. In sintesi, la nozione di dono in Bataille rappresenta un’idea complessa e multiforme, in cui il sacrificio, l’eccesso e il sacro si intrecciano per creare un’analisi critica della società umana e della sua natura. Il dono, come atto di generosità e spreco, è considerato da Bataille come una delle espressioni più profonde e significative della condizione umana.

E vidi, tra le persiane – per andare in bagno alla notte – in mezzo al lago “saranno state le 5:00” due donne impegnate in un particolare gesto. L’una in piedi, chiaramente dalla chioma generosa e rossa – orfica; pescare al lume di lanterne cinesi appese sul natante e l’altra “con l’aiuto del cannocchiale poichè il buio ancora intercedeva gli occhi” mariana nel suo candore imprevisto intenta a pulire i pesci ricoverati nella barca con tale maestria da parere nata per questo. Mi ferì nella lente d’improvviso un bagliore minuto. La celeste non mondava soltanto l’animale bensì ne estraeva la lisca e proseguiva con il dorarla.

La favola inedita, risponde oltre che al gioco della visione ad una riflessione allargata sulla nozione di Dono. Il concetto di dono di Bataille è profondamente radicato nell’idea di sacrificio e nell’eccesso. Nel libro “La parte maledetta” (“La part maudite”), pubblicato nel 1949, Bataille esplora la natura del dono e la sua relazione con il sacro e l’economia. Egli parte dall’osservazione che il dono è una delle prime forme di scambio umano, precedente al concetto di economia razionale basata su calcoli di utilità e profitto. Il dono, secondo Bataille, è una forma di eccesso, dove il donatore dà senza aspettarsi un ritorno equivalente. Questo eccesso è speso senza calcoli, in un gesto di dissipazione o spreco, e ciò lo collega al sacro.
Bataille considera il dono come una forma di sacrificio, in cui il donatore rinuncia a qualcosa di suo per darlo ad altri. Questa rinuncia e perdita sono fondamentali per la sua concezione del dono come atto sacro. Egli collega questa idea al concetto di “economia generale” (économie générale), dove il surplus prodotto dalla società non è destinato alla produzione o all’accumulazione di beni, ma è speso in attività che sono al di fuori della sfera economica razionale. Ciò include attività artistiche, rituali, giochi, feste e altre espressioni di eccesso e perdita che caratterizzano la condizione umana. In sintesi, la nozione di dono in Bataille rappresenta un’idea complessa e multiforme, in cui il sacrificio, l’eccesso e il sacro si intrecciano per creare un’analisi critica della società umana e della sua natura. Il dono, come atto di generosità e spreco, è considerato da Bataille come una delle espressioni più profonde e significative della condizione umana.

La Favola

Il Pesce d’Oro
08’28”, 2021

Performer: Susanna Vicenzetto

Voce e Favola: Giulia Cosio

Abito: Balaustio

Produzione: La Cameranera

In collaborazione con Archos

C’era una volta il mondo. Ma il mondo non era come lo vediamo, perché, a dire il vero, il mondo non si vedeva affatto: il mondo era tutto buio. E non si poteva nemmeno dire che fosse notte, perché, quando è notte, c’è il luccichio delle stelle, o le luci alle finestre, oppure talvolta si vede la luna; nel mondo, invece, non c’era nemmeno una luce, e tutto era avvolto nella più completa oscurità.

Un gruppo di donne, sedute attorno ad un fuoco che non poteva illuminarle, si chiedevano cosa fosse successo. “Dove è andata la luce del mondo?” diceva una “cosa può essere accaduto?” rispondeva l’altra. Una di loro, la più anziana, che era rimasta in silenzio fino a quel momento, d’un tratto prese la parola: “dobbiamo chiederlo al pesce d’oro”, disse. “E chi è il pesce d’oro?” chiesero tutte in coro. “Il pesce d’oro è un pesce magico” riprese la donna “che vive nel fiume magico che circonda tutti i continenti. Lui sa leggere il futuro, e saprà dirci cosa si deve fare”.

E così le donne si misero in viaggio, e camminarono novantanove giorni lungo il fiume che circonda tutti i continenti, consumando nel cammino novantanove scarpe di cuoio e novantanove vesti di lino. Un giorno – ma non si poteva nemmeno dire che fosse giorno, dato il buio che circondava tutta la terra – seguendo il solito sciabordio delle onde nella più completa oscurità, le donne intravidero una luce filtrare dal fondo dell’acqua. Una luce dorata, una luce dopo tanto buio! Si dissero allora: “quella luce è dorata, dev’essere lì che si trova il pesce d’oro!”. Così calarono un amo in acqua, e il pesce abboccò subito, risalendo in superficie. Oh, il pesce d’oro è davvero un pesce magico, con grandi occhi dalle iridi dorate e il corpo ricoperto di piccolissime scaglie d’oro fino. “Pesce d’oro, pesce d’oro” dissero le donne col cuore in tumulto, “dicci, perché il mondo è tutto buio? Dove è andata la luce che circondava la terra?”. Il pesce d’oro rispose: “Il mondo è tutto buio perché la trota che lo porta sul dorso si è capovolta, e il mondo si è rovesciato sott’acqua insieme lei”. Sorprese dalla rivelazione, le donne risposero: “e come faremo a rigirare la trota che porta il mondo sul suo dorso?”. “Per prima cosa” rispose il pesce d’oro “dovrete battervi il petto tante volte quante sono le scarpe che avete usurato; dire tante benedizioni quante sono le vesti che avete consumato; e infine pescare tanti pesci quanti sono i giorni che avete camminato”.

Le donne fecero quanto era stato loro ordinato, ma dopo essersi battute novantanove volte il petto, detto novantanove benedizioni e pescato novantanove pesci, il mondo restava ancora avvolto nell’oscurità. Così interrogarono di nuovo il pesce d’oro, il quale disse loro: “ora siete pronte al sopportare il peso più grande. Di ogni pesce pescato dovrete estrarne la lisca e ricoprirla di tante squame quante sono quelle che ricoprono il pesce dorato”. Detto questo, il pesce d’oro chiuse gli occhi e non parlò più. Le donne fecero quanto era stato loro ordinato, e di ogni pesce pescato ricoprirono la lisca con le piccolissime squame dorate che il pesce d’oro aveva loro sacrificato. E quando l’ultima donna mise l’ultima squama sull’ultima punta dell’ultima lisca, tutte dovettero coprirsi gli occhi per la grande luce che, d’improvviso, tornò a scoprire il mondo.

C’era una volta il mondo. Ma il mondo non era come lo vediamo, perché, a dire il vero, il mondo non si vedeva affatto: il mondo era tutto buio. E non si poteva nemmeno dire che fosse notte, perché, quando è notte, c’è il luccichio delle stelle, o le luci alle finestre, oppure talvolta si vede la luna; nel mondo, invece, non c’era nemmeno una luce, e tutto era avvolto nella più completa oscurità.

Un gruppo di donne, sedute attorno ad un fuoco che non poteva illuminarle, si chiedevano cosa fosse successo. “Dove è andata la luce del mondo?” diceva una “cosa può essere accaduto?” rispondeva l’altra. Una di loro, la più anziana, che era rimasta in silenzio fino a quel momento, d’un tratto prese la parola: “dobbiamo chiederlo al pesce d’oro”, disse. “E chi è il pesce d’oro?” chiesero tutte in coro. “Il pesce d’oro è un pesce magico” riprese la donna “che vive nel fiume magico che circonda tutti i continenti. Lui sa leggere il futuro, e saprà dirci cosa si deve fare”.

E così le donne si misero in viaggio, e camminarono novantanove giorni lungo il fiume che circonda tutti i continenti, consumando nel cammino novantanove scarpe di cuoio e novantanove vesti di lino. Un giorno – ma non si poteva nemmeno dire che fosse giorno, dato il buio che circondava tutta la terra – seguendo il solito sciabordio delle onde nella più completa oscurità, le donne intravidero una luce filtrare dal fondo dell’acqua. Una luce dorata, una luce dopo tanto buio! Si dissero allora: “quella luce è dorata, dev’essere lì che si trova il pesce d’oro!”. Così calarono un amo in acqua, e il pesce abboccò subito, risalendo in superficie. Oh, il pesce d’oro è davvero un pesce magico, con grandi occhi dalle iridi dorate e il corpo ricoperto di piccolissime scaglie d’oro fino. “Pesce d’oro, pesce d’oro” dissero le donne col cuore in tumulto, “dicci, perché il mondo è tutto buio? Dove è andata la luce che circondava la terra?”. Il pesce d’oro rispose: “Il mondo è tutto buio perché la trota che lo porta sul dorso si è capovolta, e il mondo si è rovesciato sott’acqua insieme lei”. Sorprese dalla rivelazione, le donne risposero: “e come faremo a rigirare la trota che porta il mondo sul suo dorso?”. “Per prima cosa” rispose il pesce d’oro “dovrete battervi il petto tante volte quante sono le scarpe che avete usurato; dire tante benedizioni quante sono le vesti che avete consumato; e infine pescare tanti pesci quanti sono i giorni che avete camminato”.

Le donne fecero quanto era stato loro ordinato, ma dopo essersi battute novantanove volte il petto, detto novantanove benedizioni e pescato novantanove pesci, il mondo restava ancora avvolto nell’oscurità. Così interrogarono di nuovo il pesce d’oro, il quale disse loro: “ora siete pronte al sopportare il peso più grande. Di ogni pesce pescato dovrete estrarne la lisca e ricoprirla di tante squame quante sono quelle che ricoprono il pesce dorato”. Detto questo, il pesce d’oro chiuse gli occhi e non parlò più. Le donne fecero quanto era stato loro ordinato, e di ogni pesce pescato ricoprirono la lisca con le piccolissime squame dorate che il pesce d’oro aveva loro sacrificato. E quando l’ultima donna mise l’ultima squama sull’ultima punta dell’ultima lisca, tutte dovettero coprirsi gli occhi per la grande luce che, d’improvviso, tornò a scoprire il mondo.

Sa Sùrbile

Federica Murittu
01’40”, 2022

Sa Sùrbile pone l’attenzione verso un futuro prossimo, parte da una riflessione su ciò che non si può sapere sul nostro avvenire. Il progetto richiama la tradizione orale di miti e leggende della Sardegna, in cui Sa Sùrbile viene ricordata come una strega che durante la notte insita attraverso le serrature delle case per uccidere i neonati. Il latte, elemento presente nel video viene tradotto metaforicamente come simbolo della giovane età che disgraziatamente viene portata via dalla sfortuna, la giovinezza sprecata e l’innocenza perduta, che scorre, si riversa attraverso una porta di legno.

Sa Sùrbile pone l’attenzione verso un futuro prossimo, parte da una riflessione su ciò che non si può sapere sul nostro avvenire. Il progetto richiama la tradizione orale di miti e leggende della Sardegna, in cui Sa Sùrbile viene ricordata come una strega che durante la notte insita attraverso le serrature delle case per uccidere i neonati. Il latte, elemento presente nel video viene tradotto metaforicamente come simbolo della giovane età che disgraziatamente viene portata via dalla sfortuna, la giovinezza sprecata e l’innocenza perduta, che scorre, si riversa attraverso una porta di legno.

ORACOLOCARO

Plastikhaare
06’14’, 2022

Il progetto nasce dall’interesse del duo per i miti arcaici, per le forme di culto e le tradizioni che fanno parte della storia culturale dell’umanità. Plastikhaare rielabora questi temi in chiave personale e surrealista, dando vita a un nuovo “rito performativo” in cui i tessuti e gli indumenti raccolti in una precedente call, sono al centro del progetto espositivo e della performance, passando così da oggetti di valore intimo e identitario a simboli del potere di interconnessione ed empatia dato dal contributo (sia prima che durante la performance) della comunità. L’intera performance mira a esplorare i sensi in tutte le loro condizioni, fungendo da veicolo per la riscoperta dello spazio, dell’ambiente e dell’altro che circondano ogni individuo quotidianamente.

Il progetto nasce dall’interesse del duo per i miti arcaici, per le forme di culto e le tradizioni che fanno parte della storia culturale dell’umanità. Plastikhaare rielabora questi temi in chiave personale e surrealista, dando vita a un nuovo “rito performativo” in cui i tessuti e gli indumenti raccolti in una precedente call, sono al centro del progetto espositivo e della performance, passando così da oggetti di valore intimo e identitario a simboli del potere di interconnessione ed empatia dato dal contributo (sia prima che durante la performance) della comunità. L’intera performance mira a esplorare i sensi in tutte le loro condizioni, fungendo da veicolo per la riscoperta dello spazio, dell’ambiente e dell’altro che circondano ogni individuo quotidianamente.

To see the sky, dance

Barbara Brugola
03’30”, 2018

 

Courtesy Visual Container

La protagonista, una ragazza con sembianze ornitomorfe, è assorta davanti allo schermo del televisore dove vengono mostrati degli uccelli impigliati nelle reti. Si mette in cammino, attraversando una foresta che si muove, i tronchi degli alberi come i denti di una gigantesca ruota dentata che possono stritolare l’incauta passante. Oltrepassate le reti che schermano il cielo e che imprigionano gli uccelli, arriva presso una pista di pattinaggio dove indossa un paio di pattini ed inizia a fare salti e trottole. Perde l’equilibrio, cade, si rialza e mentre infila l’ultima serie di trottole il cielo si riempe degli uccelli che riacquistano la libertà.

La protagonista, una ragazza con sembianze ornitomorfe, è assorta davanti allo schermo del televisore dove vengono mostrati degli uccelli impigliati nelle reti. Si mette in cammino, attraversando una foresta che si muove, i tronchi degli alberi come i denti di una gigantesca ruota dentata che possono stritolare l’incauta passante. Oltrepassate le reti che schermano il cielo e che imprigionano gli uccelli, arriva presso una pista di pattinaggio dove indossa un paio di pattini ed inizia a fare salti e trottole. Perde l’equilibrio, cade, si rialza e mentre infila l’ultima serie di trottole il cielo si riempe degli uccelli che riacquistano la libertà.

Bodymachine Project

Clarissa Falco
03′,00”, 2020/2022

Crediti Bloodhouse production

Bodymachine Project è un cortometraggio nato dalla collaborzione con Bloodhouse Production. In un futuro distopico la riproduzione degli esseri umani avviene attraverso l’ibridazione di questi ultimi con le macchine; un tentativo di creare nel/sul proprio corpo una zona autonoma, di eccezione, capace di gettare nuova luce sulla relazione nascosta che lega il corporeo con l’artificio.

Grazie alla regia di Bloodhouse Production il mio percorso artistico e performativo trova forma in una realtà horror/Sci-fi ispirata al film Tetsuo: The Iron Man di Shin’ya Tsukamoto. Bodymachine Project vuole essere narrazione cruda, deviante, fastidiosa, scomoda, fotogrammi di un mondo distopico che si cela dietro ad una facciata di perbenismo che caratterizza il nostro contemporaneo.

Bodymachine Project è un cortometraggio nato dalla collaborzione con Bloodhouse Production. In un futuro distopico la riproduzione degli esseri umani avviene attraverso l’ibridazione di questi ultimi con le macchine; un tentativo di creare nel/sul proprio corpo una zona autonoma, di eccezione, capace di gettare nuova luce sulla relazione nascosta che lega il corporeo con l’artificio.

Grazie alla regia di Bloodhouse Production il mio percorso artistico e performativo trova forma in una realtà horror/Sci-fi ispirata al film Tetsuo: The Iron Man di Shin’ya Tsukamoto. Bodymachine Project vuole essere narrazione cruda, deviante, fastidiosa, scomoda, fotogrammi di un mondo distopico che si cela dietro ad una facciata di perbenismo che caratterizza il nostro contemporaneo.

Entelechia Obscura

APOTROPIA
04’00”, 2021

Entelechia è il termine aristotelico usato per indicare la finalità interiore insita in ogni ente o realtà, una sorta di stato di perfezione di qualcosa che ha raggiunto lo scopo per cui è stata predisposta. Principio eterno e ideale, l’entelechia è in costante rapporto dialettico con le condizioni materiali, corpi e mondi, che le si pongono.

Entelechia è il termine aristotelico usato per indicare la finalità interiore insita in ogni ente o realtà, una sorta di stato di perfezione di qualcosa che ha raggiunto lo scopo per cui è stata predisposta. Principio eterno e ideale, l’entelechia è in costante rapporto dialettico con le condizioni materiali, corpi e mondi, che le si pongono.

Puddles Game

Davide Quartucci
04’27”, 2022

In Edgar Allan Poe, il destino delle immagini dell’acqua segue il destino della reverie della morte. Ogni acqua originariamente chiara è un’acqua che deve oscurarsi. Contemplare l’acqua è scorrere, dissolversi, morire, decomporsi. La reverie comincia talvolta davanti all’acqua che scorre, finendo nel cuore di un’acqua funebre. Vi è un carattere lipidico-infantile: il gioco del bambino nell’acqua e nel fango e la sessualizzazione derivante dalla mescolanza di terra e acqua. La mescolanza di due elementi è sempre un connubio, una sessualizzazione psicoanalitica e simbolica. Le pozzanghere sono acque immobili, e in quanto tale richiamano i morti. La malinconia di fronte alle acque dormienti, che ha l’odore di pozzanghera, è una malinconia non opprimente ma sognante, lenta e quiete. La reverie vicino all’acqua, ritrovando i suoi morti, muore anch’essa con il sognatore.

In Edgar Allan Poe, il destino delle immagini dell’acqua segue il destino della reverie della morte. Ogni acqua originariamente chiara è un’acqua che deve oscurarsi. Contemplare l’acqua è scorrere, dissolversi, morire, decomporsi. La reverie comincia talvolta davanti all’acqua che scorre, finendo nel cuore di un’acqua funebre. Vi è un carattere lipidico-infantile: il gioco del bambino nell’acqua e nel fango e la sessualizzazione derivante dalla mescolanza di terra e acqua. La mescolanza di due elementi è sempre un connubio, una sessualizzazione psicoanalitica e simbolica. Le pozzanghere sono acque immobili, e in quanto tale richiamano i morti. La malinconia di fronte alle acque dormienti, che ha l’odore di pozzanghera, è una malinconia non opprimente ma sognante, lenta e quiete. La reverie vicino all’acqua, ritrovando i suoi morti, muore anch’essa con il sognatore.

Please stand behind the yellow line

Luca Staccioli
07’23”, 2019

Gesti quotidiani sono scanditi dalla sveglia di un cellulare, marcati da guanti gialli che tutte le persone indossano. Il solipsismo di una realtà intoccabile e normativizzata porta al grottesco e al conturbante di un ambiente domestico dove il corpo scompare: è una dissipatio del genere umano. Allo stesso tempo i suoi resti sopravvivono; persa la loro funzionalità, oggetti e memorie diventano immagine, altra, della vita.

Please stand behind the yellow line (DHG) nasce dopo la lettura del romanzo distopico Dissipatio Humanis Generis di Guido Morselli, 1977.

Gesti quotidiani sono scanditi dalla sveglia di un cellulare, marcati da guanti gialli che tutte le persone indossano. Il solipsismo di una realtà intoccabile e normativizzata porta al grottesco e al conturbante di un ambiente domestico dove il corpo scompare: è una dissipatio del genere umano. Allo stesso tempo i suoi resti sopravvivono; persa la loro funzionalità, oggetti e memorie diventano immagine, altra, della vita.

Please stand behind the yellow line (DHG) nasce dopo la lettura del romanzo distopico Dissipatio Humanis Generis di Guido Morselli, 1977.

An act of spontaneous design

Ginevra Petrozzi
02’06”, 2019

Un’auto-esplorazione guidata dal linguaggio simbolico degli oggetti, lo stesso del subconscio. An act of spontaneous design sblocca una conversazione tra un corpo e il potenziale sensuale della relazione con gli oggetti che lo circondano. Ispirato a “Il sex-appeal dell’inorganico” di Mario Perniola, il video racconta un dialogo tattile, sensuale e uditivo, guidato da suoni ASMR e citazioni sussurrate (essendo il sussurrare anch’esso trigger ASMR) del testo di Perniola.

Un’auto-esplorazione guidata dal linguaggio simbolico degli oggetti, lo stesso del subconscio. An act of spontaneous design sblocca una conversazione tra un corpo e il potenziale sensuale della relazione con gli oggetti che lo circondano. Ispirato a “Il sex-appeal dell’inorganico” di Mario Perniola, il video racconta un dialogo tattile, sensuale e uditivo, guidato da suoni ASMR e citazioni sussurrate (essendo il sussurrare anch’esso trigger ASMR) del testo di Perniola.

your spanish lullaby

MiamiSafari
04’51”, 2022

your spanish lullaby è uno spazio di migrazione degli immaginari pop e coloniali in Olympia di Édouard Manet. L’esotico dei pompelmi, della caña da zucchero, dei fiori di Milano e il ritornello di La isla bonita, traccia di Madonna del 1987, accennano alla ciclicità nella cultura occidentale dell’azione di rimozione e silenziamento dei soggetti – Laure, i sogni caraibici e il gatto nero – attraverso un processo di esotizzazione o di integrazione. L’opera è frutto di una progettualità espansa tra MiamiSafari, Daniele Costa e Martina Rota; uno spazio ibrido di collisioni tra linguaggi e pratiche artistiche.

your spanish lullaby è uno spazio di migrazione degli immaginari pop e coloniali in Olympia di Édouard Manet. L’esotico dei pompelmi, della caña da zucchero, dei fiori di Milano e il ritornello di La isla bonita, traccia di Madonna del 1987, accennano alla ciclicità nella cultura occidentale dell’azione di rimozione e silenziamento dei soggetti – Laure, i sogni caraibici e il gatto nero – attraverso un processo di esotizzazione o di integrazione. L’opera è frutto di una progettualità espansa tra MiamiSafari, Daniele Costa e Martina Rota; uno spazio ibrido di collisioni tra linguaggi e pratiche artistiche.

Vandatta

Giulia Terminio
04’30”, 2022

riprese di Massimo Bologna

Vandatta è una messa in scena. La storia di una giovinezza che già vede il giardino in bianco e nero. La performer assume alternatamente le sembianze di infante e di adulta, recita passi della tragedia di Antigone trascinandosi a terra, soffrendo e ansimando su un microfono, esprime un forte disagio intimo ed allo stesso modo esposto, nella dimensione di un palazzo che fa eco al suo desiderio di rompere la legge.

Vandatta è una messa in scena. La storia di una giovinezza che già vede il giardino in bianco e nero. La performer assume alternatamente le sembianze di infante e di adulta, recita passi della tragedia di Antigone trascinandosi a terra, soffrendo e ansimando su un microfono, esprime un forte disagio intimo ed allo stesso modo esposto, nella dimensione di un palazzo che fa eco al suo desiderio di rompere la legge.

Mamma

Lorenzo Montinaro

11’11”

Probabilmente sarebbe superfluo aggiungere altre parole sia a questa performance, sia all’opera che da quel gesto trae la sua origine. In alcuni casi è necessario lasciare che l’azione e la sua conseguenza parlino da sole.

Mamma: cinque lettere che non hanno bisogno di nient’altro per essere comprese. La performance, così come l’opera, non devono rimandare ad altro se non a ciò che suscitano nella mente soggettiva delle persone. Spesso accade che nelle opere di Lorenzo Montinaro inizio e fine condividano lo stesso spazio con grande rispetto. Anche in questo caso, l’origine e il suo epilogo, vengono racchiusi nello stesso monumento di marmo. Mamma, dietro a questa parola si nascondono i segni dello scorrere del tempo, il legame umano e il pericolo di dimenticare chi ci sta intorno. La performance, così come la sua opera, hanno la capacità di parlare a tutti, senza alcuna discriminazione: sono solo cinque lettere capaci di innalzarsi a concetto universale. 
Con colpi violenti, quasi disperati, l’artista scava e scolpisce il blocco di marmo. La lapide, recuperata da un vecchio magazzino di un cimitero, diventa il foglio bianco per un nuovo inizio. La parola scelta inizia a prendere vita: sembra l’inizio di una lettera di un figlio. Forse lo è. È l’inizio di una confessione: quando si invoca la madre lo si fa sempre con un motivo, quasi fosse una preghiera. Sembra appartenere a una ritualità innata, caratterizzata da un valore ancestrale: non c’è una costruzione sociale dietro questo concetto, la madre è tale perché è colei che ti genera, colei che ti libera al mondo. (Alessio Vigni)

Probabilmente sarebbe superfluo aggiungere altre parole sia a questa performance, sia all’opera che da quel gesto trae la sua origine. In alcuni casi è necessario lasciare che l’azione e la sua conseguenza parlino da sole.

Mamma: cinque lettere che non hanno bisogno di nient’altro per essere comprese. La performance, così come l’opera, non devono rimandare ad altro se non a ciò che suscitano nella mente soggettiva delle persone. Spesso accade che nelle opere di Lorenzo Montinaro inizio e fine condividano lo stesso spazio con grande rispetto. Anche in questo caso, l’origine e il suo epilogo, vengono racchiusi nello stesso monumento di marmo. Mamma, dietro a questa parola si nascondono i segni dello scorrere del tempo, il legame umano e il pericolo di dimenticare chi ci sta intorno. La performance, così come la sua opera, hanno la capacità di parlare a tutti, senza alcuna discriminazione: sono solo cinque lettere capaci di innalzarsi a concetto universale. 
Con colpi violenti, quasi disperati, l’artista scava e scolpisce il blocco di marmo. La lapide, recuperata da un vecchio magazzino di un cimitero, diventa il foglio bianco per un nuovo inizio. La parola scelta inizia a prendere vita: sembra l’inizio di una lettera di un figlio. Forse lo è. È l’inizio di una confessione: quando si invoca la madre lo si fa sempre con un motivo, quasi fosse una preghiera. Sembra appartenere a una ritualità innata, caratterizzata da un valore ancestrale: non c’è una costruzione sociale dietro questo concetto, la madre è tale perché è colei che ti genera, colei che ti libera al mondo. (Alessio Vigni)

The Song

Luca Marcelli Pitzalis
24’00”, 2021

 

riprese di Astrid Ardenti e Patrick Funzio

Ci sono delle persone che arrivano e che si siedono a terra lungo il perimetro della stanza. Nella parete frontale nello schermo di una TV compaiono a intermittenza delle parole. Al centro, appoggiata sull’asta di un microfono, cala una giacca argentata. Parte una musica, i 4/4 di una batteria. Le persone si guardano, non accade nulla. All’improvviso entra una persona a piedi scalzi, indossa la giacca e con voce strozzata e insicura inizia a cantare le parole che compaiono sullo schermo. Canta una melodia, mentre alla batteria si aggiungono nuovi e cangianti suoni. Chitarre, trombe, violini. I suoni si stratificano (apprendiamo poi che sono presi da video YouTube caricati da musicisti amatoriali) in una composizione caotica e imprevedibile. Il cantante ripete il ritornello, lo ripete sempre uguale mentre la musica si trasforma: c’è una cosa che cambia sempre e una cosa che rimane sempre uguale, e sono un’unica cosa. A volte la musica sovrasta le parole, quando dei cori emergono dal caos, a volte la voce sembra sola. Ma il cantante non lo è mai. Le persone che sono arrivate e si sono sedute ora cantano con lui. Qualcuno dice per aiutarlo. Ora cantano tutti insieme e la parola è diventata formula magica, il ritrovo un rito. È successo qualcosa. E ora il cantante si leva la giacca e se ne va. La canzone dice di partire, il cantante deve dire addio. Alla prossima.

Ci sono delle persone che arrivano e che si siedono a terra lungo il perimetro della stanza. Nella parete frontale nello schermo di una TV compaiono a intermittenza delle parole. Al centro, appoggiata sull’asta di un microfono, cala una giacca argentata. Parte una musica, i 4/4 di una batteria. Le persone si guardano, non accade nulla. All’improvviso entra una persona a piedi scalzi, indossa la giacca e con voce strozzata e insicura inizia a cantare le parole che compaiono sullo schermo. Canta una melodia, mentre alla batteria si aggiungono nuovi e cangianti suoni. Chitarre, trombe, violini. I suoni si stratificano (apprendiamo poi che sono presi da video YouTube caricati da musicisti amatoriali) in una composizione caotica e imprevedibile. Il cantante ripete il ritornello, lo ripete sempre uguale mentre la musica si trasforma: c’è una cosa che cambia sempre e una cosa che rimane sempre uguale, e sono un’unica cosa. A volte la musica sovrasta le parole, quando dei cori emergono dal caos, a volte la voce sembra sola. Ma il cantante non lo è mai. Le persone che sono arrivate e si sono sedute ora cantano con lui. Qualcuno dice per aiutarlo. Ora cantano tutti insieme e la parola è diventata formula magica, il ritrovo un rito. È successo qualcosa. E ora il cantante si leva la giacca e se ne va. La canzone dice di partire, il cantante deve dire addio. Alla prossima.

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